Quarta doppia Istruzione occupazione il produttore consumato – La cultura nelle periferie dell’imperialismo


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Il produttore consumato. Saggio sul malessere dei lavoratori contemporanei

di Francesca Coin – Il Poligrafo, 2006

La politica italiana taglia l’istruzione, adeguando la scuola pubblica alle richieste industriali di una formazione a “scarso valore aggiunto”

 

di Paola Baiocchi

Negli anni ’10 del Novecento, l’ingegner Frederick Winslow Taylor, il padre “dell’organizzazione scientifica del lavoro”, sosteneva che il lavoratore ideale doveva somigliare a Schmidt, l’operaio scelto tra altri 74 per trasportare la ghisa perché “tonto”, pieno di “spirito di sacrificio”, “non molto aperto di mente”, e così “sciocco e paziente da ricordare come forma mentis… la specie bovina”. Tanta “ottusità” risultava attraente per Taylor perché i lavoratori più “sciocchi” “obbediscono sempre” anche quando non gli converrebbe: Schmidt aveva accettato, infatti, a fronte di un incremento del 60% del salario, di sobbarcarsi quasi il 400% di lavoro in più.

Taylor e la sua visione appartengono al passato? Ci dicono di no le recenti cronache che arrivano dalla Fiat sull’eliminazione delle pause durante il lavoro: alla “catena”, nella maggiore fabbrica italiana, si lavora con il sistema Ergo-Uas combinato con il Wcm (World class manufacturing), per cui il lavoratore non può muovere neanche un passo dalla sua postazione, durante 18 turni, sabato compreso, e con almeno 120 ore di straordinario l’anno.

In concorrenza con i Paesi emergenti

Cosa c’è al di fuori della Fiat? «Una struttura produttiva debole, fatta da unità piccole o piccolissime, a gestione familiare, che non arrivano a svilupparsi fino ad avere bisogno di forza lavoro qualificata come quella laureata» spiega Fabrizio Battistelli, docente di Sociologia e direttore del Dipartimento di Scienze sociali alla Sapienza di Roma. Eppure i nostri giovani sono solo il 14% della popolazione, rispetto al 19% della media europea e la percentuale dei nostri laureati è inferiore alla media Ocse.

Quale ruolo occupiamo, quindi, nella divisione internazionale del lavoro? «Molti dei settori produttivi di specializzazione dell’Italia (tessile, calzature, cuoio, gioielleria, vetro-ceramiche, mobili-arredo) sono gli stessi delle economie emergenti più aggressive come Cina, India e Brasile» spiega Massimo Angelo Zanetti, docente di Sociologia del lavoro all’Università della Valle d’Aosta, che continua: «Dati Eurostat pre-crisi, parlavano di più del 20% della manodopera italiana occupata nel 2004 nei settori manifatturieri tradizionali. Una presenza ancora forte, a fronte di poco più del 5% della Germania e di una media europea del 13%».

Nella maggiore fabbrica italiana si ricorre all’aumento dell’intensità del lavoro, anche con l’estromissione di lavoratori, e non su prodotti ad alta intensità tecnologica per aumentare il profitto; nelle piccole-medie imprese, impegnate in settori maturi a scarso valore aggiunto, anche.

Il risultato è il monte ore lavorate per addetto più alto d’Europa e gli stipendi tra i più bassi della Ue.

Cambiare le politiche di sviluppo

Ultimi tra i primi e già quasi in ritardo rispetto ai nuovi “emergenti”. «Servirebbe un cambiamento nelle politiche per lo sviluppo – afferma l’economista Roberto Romano – che deve passare attraverso la capacità d’industrializzare le risorse della conoscenza e dell’innovazione tecnologica pubblica».

Ma i dati mostrano un panorama sconfortante: investiamo in ricerca l’1,27% sul Pil, mentre la media Ue-27 è pari al 2,01% (meno di noi spende solo la Slovacchia). Una minore spesa che non è un risparmio, significa meno occupazione, significa impoverimento dei ceti medi e sottrazione di prospettive per i più svantaggiati: i dati Eurostat riferiti al 2010 parlano di un tasso di occupazione del 68,6% nella Ue a 27 e del 68,4% nell’Eurozona; in Italia è al 61,1% (soltanto Ungheria e Malta registrano una percentuale più bassa).

Paesi che spendono di più per l’istruzione pubblica – come tutto il Nord Europa e la Danimarca, che viene spesso richiamata come modello di flessibilità sul lavoro – hanno meno disoccupati.

Deve far pensare anche il dato di quanti ragazzi non compiono gli studi superiori in Italia: secondo i dati Eurostat il tasso di dispersione scolastica dei ragazzi di età compresa tra i 18 e i 24 anni è stato, nel 2010, pari al 14,1% nella Ue-27; al 18,8% in Italia, al 12,8% in Francia, all’11,9% in Germania, al 14,9% nel Regno unito, al 28,4% in Spagna.

Istruzione e sicurezza nelle città

«C’è un nesso molto solido tra istruzione, inclusione sociale e sicurezza nelle città» riprende Battistelli «perché istruzione non è solo creazione di competenze, ma è anche education, cioè un insieme di attività che sviluppano la personalità e la socialità dell’individuo e gli forniscono gli elementi per poter stare nella società, ricoprirvi un ruolo, relazionarsi con gli altri. Tutti questi aspetti si imparano nella scuola dell’obbligo, in particolare nei primi otto anni. Non scolarizzare un bambino o un adolescente – continua Battistelli – vuol dire ritrovarlo per strada ad aggiungersi a gruppi più o meno potenzialmente devianti, fino a essere materia di reclutamento da parte della criminalità organizzata».

Le tematiche di cui abbiamo parlato sono tutte note e i dati disponibili: perché la politica continua a scegliere di tagliare gli investimenti sull’istruzione pubblica, ponendoci in concorrenza con i settori meno garantiti della forza lavoro internazionale, contribuendo così all’aumento della disoccupazione?

Per molti economisti i governi italiani sono incapaci di programmare le politiche industriali. Crediamo, invece, molto azzeccata la descrizione dell’Italia come “un esempio di stabile non governo” fatta nel famoso rapporto del 1975 di Crozier, Huntington e Watanuki, The Crisis of democracy, per la Trilateral Commission (di cui Mario Monti è un esponente). Per inciso, il famoso rapporto attribuiva le difficoltà per la governance in paesi come gli Stati Uniti, il Giappone e l’Europa alla “troppa democrazia” e nella cultura vedeva un pericolo per “l’emergere dell’avversario culturale”.

L’ingegner Taylor non avrebbe avuto dubbi: la scuola migliore è quella che prepara lavoratori con una forma mentis il più possibile vicina a quella bovina.

Box Mal di fabbrica

Nel periodo della grande espansione economica del capitalismo, durata dal 1945 al 1973, i lavoratori delle zone più sviluppate hanno conseguito grazie alle loro lotte una serie di importanti conquiste in termini di diritti e di salario diretto e differito. Ma è in corso da anni un’inversione della tendenza per cui le condizioni dei lavoratori occidentali stanno progressivamente peggiorando, avvicinandosi a quelle dei lavoratori delle zone di più recente sviluppo. Ne parla nel suo libro Il produttore consumato, Francesca Coin ricercatrice presso Ca’ Foscari.

Uno degli indicatori più sensibili è l’orario di lavoro per cui gli Stati Uniti hanno ormai superato, con 2000 ore in media di lavoro l’anno, i giapponesi. Aumenta anche in Italia l’orario di lavoro e assieme alla perdita dei diritti e di rappresentanza sindacale e politica, aumenta un disagio che resta sempre più spesso senza la possibilità di esprimersi. I lavoratori sono esposti alla “tentazione di supplire all’esperienza della realtà con un’esperienza regressiva” come quella del consumo delle droghe.

Una necessità tanto più dominante quanto più sono ridotti gli strumenti culturali e le alternative che la società offe ai lavoratori chi vi ricorrono. Tanto che le sostanze psicotrope diventano l’unica via (alienante) di uscita dall’alienazione.

Quarta doppia Istruzione occupazione il produttore consumato – La cultura nelle periferie dell’imperialismoultima modifica: 2012-01-28T08:30:00+01:00da iskra2010
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