L’IMPERIALISMO

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di Angelo Ruggeri

In realtà, ci ha finora interessato la storia europea e abbiamo chiamato “storia mondiale” quella europea con le sue dipendenze europee” Antonio Gramsci(che così ci aiuta a capire perché gli eurocentrici si sono accorti solo ora della “globalizzazione” mondiale del capitalismo, che non è nuova ed anzi, nel Manifesto del 1848 Marx la analizzava 150 anni prima della nascita di Bill Gates e che è proprio con la “globalizzazione” che inizia e caratterizza l’Età contemporanea distinguendola da quella moderna.

La rapidità di circolazione” è la forma del rapporto tra il commercio internazionale e “le divise nazionali”. Lo diceva Gramsci sui Quaderni, 15§ 5, settant’anni prima che la pseudo sinistra intellettuale e politica la prendesse a pretesto per proclamare apoditticamente che l’odierna iperbolica velocità dei flussi finanziari, additata come un “assoluto”, segnerebbe di per sé una cesura totale tra il capitalismo di fine secolo XX e quello di inizio XXI secolo.

IL SECOLO LUNGO DEL 900

L’imperialismo fase suprema della globalizzazione finanziaria del capitalismo.

Imperialismo è il dominio che il capitale finanziario (industriale e bancario in simbiosi tra loro) principale e aggressivo protagonista dell’imperialismo, esercita con i mezzi congiuntamente economici, politici e militari delle nazioni capitalistiche industrializzate, ai danni di nazioni colonizzate o ridotte allo stato di semi colonia, per cui contrattare l’annullamento del debito (cosa ben diversa dal “non pagare il debito” da parte di Paesi come gli USA, l’Italia, la Francia, e simili del c.d. Nord del Mondo) è d’obbligo, in ragione dello SVILUPPO DISEGUALE a cui sono stati sottoposti – e sono – paesi come l’Ecuador, la Tunisia e simili del cosiddetto (c.d.) Sud del Mondo.

L’età contemporanea è appunto detta l’Età dell’imperialismo del capitalismo finanziario(dagli anni 1880 ad oggi).

Quel che accade nel mondo non avviene per caso, si tratta di eventi fatti succedere, … che abbiano a che fare con questioni nazionali e commerciali, e la maggior parte di questi eventi sono inscenati da quelli che maneggiano il capitalismo finanziario…”(barone Denis Winston Healey, ministro britannico della Difesa, prima, e delle Finanze, poi)

Bisogna considerare molto importante, oltre che significativo, il fatto che l’attenzione, anche di alcuni studiosi, ritorni all’imperialismo ed ai suoi problemi per due ordini di motivi .

Il primo motivo è di natura, per così dire, accademica: la cultura ufficiale – economica e socio-politica – per la natura sua stessa di essere espressione ed estrazione della cultura della borghesia imperialista, non ha mai preso sul serio la tematica dell’imperialismo o l’ha confinata nella genericità di una “politica espansionistica” con scarse capacità di differenziazione delle fasi storiche.

Il secondo motivo è invece di segno opposto: la politica marxista (prima e poi il suo abbandono) ha ritenuto spesso di potersi esentare dalla ricognizione scientifica di questo campo e si è ridotta a dimenticare vecchie teorie senza svilupparle e addirittura sostituendole con le pseudo-nuove categorie della cosiddetta (c.d.) “globalizzazione”, nonostante che, sia il ruolo dello Stato che quello del “lavoro”, benché modificatisi via via, siano, ed oggi si confermano e si dimostrino, coessenziali a qualificare le interdipendenze sociali, economiche e politiche del capitalismo che è, per sua vocazione storica, “globale” (come lo ha rilevato subito il “Manifesto” di Marx-Engels del 1948!!! e ancor più Lenin che si è dimostrato ancor più “globalizzatore” dello stesso Marx anche e proprio rilevando la globalizzazione imperialista del capitalismo finanziario) e vede cadenzato nei singoli territori del mondo il dominio delle forme del capitale finanziario nazional-internazionale.

I fatti e i problemi teorici sbozzati dalla cultura marxista e dalle celebri pagine leniniane restano non solo validi ma essenziali.

Da lì occorre riprendere per tornare a misurarne la struttura sugli sviluppi registrati nel mondo nell’epoca delle rivoluzioni socialiste e anticoloniali, e di quelli post-crisi e caduta dei regimi dell’Est europeo, che, anziché dar luogo alla fine della storia, al contrario ha aperto scenari nuovi per l’imperialismo del capitale finanziario.

Con spinte verso un suo “dominio reale” che, non potendo essere automatico, ha dispiegato le sue proiezioni nei modi più brutali nelle vesti di guerre e forza militare portati in luoghi posti ben al di la e lontani dai propri confini, coniugando in concreto, i contenuti di un dominio che è intrinsecamente espressivo di un imperialismo sia politico che economico, disvelando così le ambiguità celate dalla teoria della “globalizzazione” volta ad imporre anzitutto con l’oppressione di un potere di classe, i vincoli che l’intervento armato (diretto, indiretto o per procura), dal canto suo, esplicita in modo più eclatante.

In questo modo coinvolgendo – come da ultimo nel caso della guerra libica, di quella all’Iraq, ed in tutte le altre scatenate in questi anni, non solo lo stato di volta in volta aggredito, ma anche quelli indirettamente trascinati nel conflitto in una logica di alleanze inevitabilmente subite da quegli stati ideologicamente ispirantisi alla logica unificante e gerarchizzante del mercato internazionale che induce, persino, a violazioni del diritto internazionale e della stessa Costituzione come nel caso dell’Italia.

Nel vuoto di attenzione alla categoria concettuale dell’imperialismo del capitalismo finanziario ci troviamo così di fronte alla manifesta mancanza e assenza di memoria e capacità storica e teorica da parte di vari gruppi e movimenti sorretti solo dal “volontarismo”che finiscono ( come i c.d. “no global” e movimentisti) col veicolare una sottocultura puramente protestataria. Tramite “slogan e linguaggio dall’espressività mostruosa perché diviene immediatamente stereotipo” (Pasolini), a causa della ripulsa e, quindi, della mancanza di teoria critica della storia, critica dell’economia e del diritto dello stato e dunque di capacità di fare analisi organica, analisi storica, politica ed economica di classe del capitalismo finanziario e dei suoi conflitti interimperialistici ed imperialisti, riducendo al solo capitale bancario il capitalismo e il suo sistema di dominio statale-industriale che esporta nel mondo non solo il sistema di produzione ma anche i rapporti sociali e le forme istituzionali e di potere del capitalismo finanziario dell’imperialismo occidentalista.

Un limite che si dimostra essere ancora più grave di fronte alla presa di governo dell’Italia e non solo, da parte di un mondialista del sistema di dominio e potere mondiale del capitale finanziario, come Mario Monti.

 

L’IMPERIALISMO

Problemi del capitale e dell’accumulazione capitalistica nell’economia imperialistica

“…l’abbacinante apertura di tale prospettiva nei termini della cd “globalizzazione” col suo semplicismo ha avuto il ben noto effetto disarmante perché apoditticamente dogmatico, in quanto si è tradotto nel definitivo snaturamento politico di una formazione che, da “estrema sinistra” ispiratrice del processo di “trasformazione” della società, si è alterata in “sinistra parlamentarista…

In senso moderno, il termine imperialismo, usato per la prima volta, pare, dallo statista inglese Benjamin Disraeli morto nel 1881, trova larga applicazione nel linguaggio politico dei vari Paesi Europei (Gran Bretagna, e poi Germania e Francia, cioè gli imperialismi storici, quali sono ancora oggi), sin dagli ultimi decenni e nella nuova realtà economica e politica chiaramente delineatasi a partire dalla fine del secolo XIX.

Nessuno, allora, si sognò di attribuire ad una forma puramente convenzionale quale quella di suddividere la storia in secoli, il significato di “fine della storia dell’800, come invece è stato detto e fatto – sull’onda di una apodittica, e quasi superstiziosa, declinazione della modernità in “post-modernità” – asserendo che, col passaggio al XXI secolo, sarebbe finita la “storia del ‘900”. Sulla base, sostanzialmente, di una visione “politicista” appiattita sul congiunturalismo, ruotante intorno a due datazioni 1989 “caduta” del “socialismo reale” e 2001 terrorismo e reazione angloamericana incapace, quindi, di superare i limiti del socilogismo, che ha impedito, ed è valso ad impedire, di cogliere la dimensione diacronica e non solo sincronica dei processi in atto ed accreditando un “pragmatismo” espressivo dell’egemonia culturale di stampo anglosassone. (come abbiamo altrove ricordato)

In realtà quanto è iniziato nell’800 continua ancor oggi (pur con tutte le modificazioni), nellacontinuità del processo storico caratterizzato proprio dalla continuità storica dell’imperialismo,fase suprema del capitalismo finanziario, in quello che in realtà è IL SECOLO LUNGO DEL 900.

Un’Età contemporanea ed un Secolo che non ha avuto soluzione di continuità nemmeno con la “la caduta del muro di Berlino”, messa in dubbio solo dalla teoria della c.d. “fine della storia” dimostratasi così tanto infondata, tanto menzognera quanto creduta e assunta e persino teorizzata da tellettul.in, politici e sindacalisti della pseudo-sinistra ed anche di quella sedicente comunista, vittime del “cretinismo parlamentare” (contro cui metteva in guardia Togliatti) e che sono in realtà solo sinistra parlamentarista” che tanto ricorda la storica e radicale “sinistra parlamentarista” dell’800.

All’inizio del Novecento, grazie all’opera di studiosi di economia e storici, la parola imperialismoha già assunto un carattere concettuale specifico (oggi largamente e da troppi ignorato), specie per quanto riguarda il problema squisitamente storiografico relativo alla periodizzazione dell’età contemporanea (e si parla , in questo senso, di Età dell’imperialismo).

Imperialismo è il dominio, esercitato con mezzi congiuntamente economici, politici e militari, dalle nazioni capitalistiche industrializzate, ai danni di nazioni colonizzate o ridotte allo stato di semi colonia, come la Tunisia e simili, per cui contrattare l’annullamento del debito è d’obbligo, in ragione DELLO SVILUPPO DISEGUALE A CUI SONO STATI – e sono – SOTTOPOSTI tali paesi.

Nel dibattito teorico è subito chiaramente colto lo stretto rapporto intercorrente tra il mondo dell’economia e quello della diplomazia dello stato.

I progressi in campo tecnico-scientifico, le nuove fonti di energia e di nuovi modi di sfruttare l’energia, lo sviluppo dei rapporti e delle telecomunicazioni, l’organizzazione e la dimensione anche internazionale delle imprese, l’intervento delle grandi banche e del capitale finanziario a livello internazionale, erano già ampiamente presenti all’inizio del 900 e sono messi, giustamente, in relazione tra loro da tutti, sia pure con sfumature diverse, con l’attività degli STATI, con la conquista di vaste zone dell’Africa, dell’Asia e con i Trattati e le guerre (nota 1).

Sicché si può comprendere che le norme cd “programmatiche” della Costituzione del 1948, culminanti in quella sulla “programmazione globale” dell’economia a fini sociali – hanno avuto il pregio di contribuire all’identificazione sempre più precisa dei termini reali in cui già nel ‘900 ha acquisito carattere centrale e dominante il ruolo della moneta e quindi delle “istituzioni” di riferimento.

A questo proposito, Gramsci, nella prima parte del ‘900ben prima quindi della c.d. globalizzazione di fine XX secolo –ha sottolineato quella caratteristica della “rapidità di circolazione” che è la forma del rapporto tra il commercio internazionale e “le divise nazionali” (Q 15§ 5).

Rapidità di circolazione” monetarie e degli scambi che, viceversa, in prossimità dei nostri giorni (nel passaggio dall’automazione all’informatizzazione e diversamente dai progressi tecnico-scientifici, verificatisi nei primi 900 e nelle diverse rivoluzioni industriali di ogni fase storica del capitalismo) è stata presa a pretesto per proclamare, apoditticamente, che l’odierna iperbolica velocità dei flussi finanziari, additata come un “assoluto”, segnerebbe di per sé una cesura totale tra il capitalismo di fine secolo XX e quello di inizio XXI secolo.

Nota Bene (N.B): cesura “totale”, anziché “passaggio di fase” con effetti di trascinamento del rapporto capitale finanziario/capitale industriale sul nesso teorico tra fordismo, società post-moderna ed economia post-fordista, dando una lettura della trasformazione dell’impresa (e del capitalismo) “multinazionale ” nell’impresa (e capitalismo) transnazionale tramite la “rete” delle imprese portatrici del fenomeno della “delocalizzazione” e della “deterritorializzazione”.

Da ciò sono state dedotte le conclusioni sulla cd “fine dello stato” nonché “fine del lavoro”, enfatizzando il passaggio dal ciclo di produzione di beni “materiali” al ciclo di produzione di beni “immateriali”, come base fondativa di una c.d. “economia della conoscenza” su cui si staglierebbe l’avvento del lavoro come fatto sempre più “individuale”, al posto del lavoro quale espressione del rapporto tra “occupazione” e società. (nota 2)

Lo storico inglese John Atkinson(1858-1940), in Imperialism (1902), già rilevava che la caratteristica essenziale dell’imperialismo moderno è data dalla pluralità e dalla rivalità di più imperialismi.

Il socialdemocratico tedesco Rudolf Hilferding (1877-1941) con cui ebbe a dibattere Lenin stesso, e la socialista rivoluzionaria Rosa Luxemburg(1870-1919) già esaminavano i problemi del capitale e dell’accumulazione capitalistica nell’economia imperialistica.

Il socialdemocratico J. Kautsky (1854-1938) collegava il fenomeno dell’imperialismo all’insito sviluppo industriale e tecnologico-scientifico del capitalismo, però, sottovalutando il ruolo della finanza internazionale.

Sarà Lenin (L’imperialismo fase suprema del capitalismo) a porre rimedio a tale sottovalutazione e, con estrema chiarezza a parlare e chiarire sia le questioni attinenti la natura dell’imperialismo, al suo collegarsi, con elementi di continuità e di differenza, allo sviluppo industriale e tecnologico del capitalismo, sia la questione del posto che il fenomeno occupa nella storia contemporanea del capitalismo finanziario.

Già Lenin spiegava che l’incremento del capitale finanziario rispetto al capitale industriale non è un fenomeno di oggi che riguarda il nostro mondo attuale e la concorrenza dei diversi imperialismi (ricordiamoci l’accento che viene posto ogni giorno sulla parola cosiddetta concorrenza, una bufala utile per assicurare il grande capitale industriale e bancario e le privatizzazioni e liberalizzazione a suo favore), ma che c’è una “peculiarità storica” essenziale del fenomeno dell’imperialismo – di cui, poi, nazionalismo, razzismo e antisemitismo sono stati appunto definiti la cultura dell’imperialismo, che è in evidenza all’interno delle vicende europee degli anni ottanta dell’ottocento (come degli anni ottanta del novecento).

Più che nella storia inglese, un elemento di grande importanza per la tesi di Lenin si trova in quella francese, dove il “RAPIDO INCREMENTO DEL CAPITALE FINANZIARIO”, mentre il capitale industriale decadeva dal 1880 in poi, aveva determinato un grande intensificarsi della politica annessionistica “coloniale”.

Se per gli storici di professione queste ricerche servirono e tutt’oggi servono per dare una risposta alla questione, ancora aperta, relativa all’individuazione delle fasi significative, cronologicamente ordinate, del mondo in cui viviamo, per il movimento operaio e per i movimentie le forze sociali e democratiche di massa, diventarono e “sono la base, oggi, su cui innestare una battaglia politica sempre più vasta e incisiva” (come ha scritto in anni recenti anche Lucio Lombardo Radice).

Cogliere gli aspetti peculiari dell’imperialismo significa, dunque, cogliere quelli dell’odierno capitalismo finanziario nella sua fase suprema di sviluppo; significava e significa infatti mettere a punto più adeguati strumenti politico-economici e culturali di difesa e di contrattacco.

Sul fronte contrario, la classe borghese dominante, in connessione con i successi conseguiti in campo tecnologico e militare, elabora (anch’essa) una ideologia e una cultura (sua propria) dell’imperialismo in forme variamente articolate che vanno dal mito dell’uomo bianco europeo portatore di civiltà (“il fardello dell’uomo bianco”) al fondamentalismo democratico occidentale messianicamente proteso a portare la civiltà e la democrazia nel mondo col suo modello di sviluppo e modello istituzionale e di potere, rifacendosi, in primis, a quello c.d. classico dello stato capitalista ed imperialista anglosassone: dopo essere passato, e ancor all’uopo passando, all’esaltazione dei principi nazionalistici (anche quando sono localistici o regionalistici) e alla teoria della superiorità di religione o di razza .

Nel solco ancora di quel ventaglio di posizioni troviamo la poetica celebrazione della missione imperiale britannica “cantata” dallo scrittore R. Kipling, l’affermazione di potenza del finanziare Cecil J. Rhodes che considerava la politica di conquista sudafricana come imprescindibile strumento di civilizzazione, l’enunciazione di una gerarchia fra le razze ripresa e rilanciata in funzione dell’imperialismo tedesco da L. Shermann, da Chamberlain in “I fondamenti del XIX secolo”.

Ma sullo stesso versante si muovono cospicue componenti (che per altro sono oggi crescenti in vari paesi dell’Europa e specie in quella dell’Est), raccoltesi attorno ad es., a “L’action Francaise”, ed arrivando ai giorni nostri, raccolti attorno ai fautori del mondialismo Occidentalista della Trilateral “…volta a coordinare lo sforzo per prendere il controllo e consolidare i quattro centri di potere: politico, monetario, intellettuale ed ecclesiastico grazie alla creazione di una potenza economica mondiale superiore ad ognuno dei governi politici degli stati…” (Barry Goldwater)

“…una specie di massoneria ultra-liberista statunitense, europea e nipponica ispirata da David Rockefeller e Henry Kissinger… (su “Cultura Cattolica”) che vuole imporre la propria superiorità di civiltà e di credo economico, politico e religioso del capitalismo finanziario capeggiato dalla City londinese e della “religione civile” da cui origina e prende nome il fondamentalismo cresciuto all’ombra dello stato c.d. “laico e aconfessionale” statunitense.

Così come Group Bilderberg, da cui originano alcune singolari coincidenze, infatti, Bill Clinton partecipando ad una riunione del Group nel 1991, vince le primarie del Partito democratico e da oscuro governatore dell’Arkansas diventa presidente USA nel 1992. Tony Blair vi partecipa invece nel 1993 e diventa leader del partito laburista nel 1994 e primo ministro nel ‘97. Idem per George Robertson che vi partecipa e diventa segretario della NATO; e per Romano Prodi che va alla riunione del Bilderberg nel 1999 e nello stesso anno riceve l’incarico di presidente dell’UE fino al 2005 per poi diventare Presidente del Consiglio nel 2006.

Insomma sembra confermarsi una dichiarata tesi:

“Quel che accade nel mondo non avviene per caso, si tratta di eventi fatti succedere, sia che abbiano a che fare con questioni nazionali e commerciali, e la maggior parte di questi eventi sono inscenati da quelli che maneggiano il capitalismo finanziario” (barone Denis Winston Healey, ministro britannico della Difesa, prima, e delle Finanze, poi).

Così come la Goldman Sachs non è una semplice banca d’affari ma

“funziona da massoneria ultra liberista, in cui ex dirigenti, consiglieri ma anche trader della banca americana si ritrovano oggi al potere nei Paesi europei chiave per la gestione della crisi finanziaria scrive Le Monde (il giorno dell’insediamento del governo del presidente Napolitano) portando come esempio per tutti il pluridecorato da tutte e tre le istituzioni oscure (Trilateral, Bilderberg e Goldman Sachs) Mario Monti.

Nota 1

Pertanto occorre rompere con una duplice mistificazione oggi dominante: la prima frutto di un’operazione ideologica e tattica insieme identificabile nella ostentata “rottura” complessiva e acritica con il ‘900; e la seconda additata incongruamente nel segno di una futuribile catarsi lasciando tuttora allo scoperto l’avventurismo con cui si disorienta il fronte del movimento operaio e i suoi alleati frattanto privi di basi fondative sotto l’attacco concentrico di CdL e Unione delle sinistre: si che per uscire dall’impasse in cui si è costretti a rimanere sino a quando non ci si sarà liberati dalla sudditanza imposta dall’egemonia culturale e politica dei gruppi di potere di supporto del capitalismo internazionale e nazionale, altro non c’è che riconoscere che “tornare alla teoria” comporta la ripresa dell’uso “politico” della teoria marxista come critica dell’economia politica e come critica della teoria del diritto e dello stato, quale articolazione della “filosofia della prassi” di cui Gramsci ha lasciato puntualizzazioni che urge riattualizzare andando oltre i prevalenti esercizi di “filologia” gramsciana oggi in auge, (non solo in Italia ma anche nel nord oltre che nel sud America, a tacere delle manipolazioni di un c.d. “gramscismo sociale” che interessano una destra anelante a sua volta a “modernizzarsi)”. Vanno tenute quindi ben presenti le incisive, molteplici annotazioni riconducibili a unitarietà teorico-politico concernenti l’interdipendenza che già nel ‘900 – a partire dal tipo di assetto dei rapporti tra capitalismo internazionale e nazionale riscontrabili negli anni ’30 nel cono d’ombra della “crisi del 1929” –la filosofia della prassi sapeva cogliere valutando criticamente il nesso tra i rapporti civili e politici e i rapporti economici, sul presupposto che teoricamente “tutto è politica” in quanto si colga che c’è eguaglianza tra “filosofia e politica”, tra pensiero e azione (Q 7 § 35), donde la famosa, perspicua elaborazione del concetto di “blocco storico” come unità tra la natura e lo spirito sì da poter chiarire che i rapporti sociali di produzione sono le strutture di cui l’insieme delle soprastrutture sono il riflesso (Q 8 § 182).

In tale angolazione spicca esemplarmente il carattere attuale dell’osservazione di Gramsci circa l’“intransigenza” dell’“economismo” per la sua vocazione storica a una rigida avversione di principio ai “compromessi”, in conseguenza della convinzione ferrea che esistano per lo sviluppo storico “leggi obiettive dello stesso carattere delle leggi naturali” che da luogo e un “fatalismo fatalistico affine a quello religioso”, e alla ripulsa volontaria tendente a predisporre queste situazioni secondo un piano”: ciò che assume tanto maggior rilievo, ove si pensi alla chiarezza con cui Gramsci seppe cogliere l’antitesi tra la ”patente statalecon cui si salvava l’industria privata mediante l’Imi e l’Iri, con una sorta di “nazionalizzazione per rimediare a una certa arretratezza, e la nazionalizzazione da concretare in una fase storica organica e “necessaria allo sviluppo dell’economia verso una costruzione programmatica” (Q 15 § 1°).

Tale anticipazione critica sulla differenza tra sistema di accumulazione privata vista nella logica dell’economismo e sistema di nazionalizzazioni come parte organica di economia programmatica – per cui non è un caso che, sulla spinta delle intese ispirate negli anni 1944-47 dalla strategia togliattiana della “democrazia progressiva” la costituzione repubblicana e antifascista del 1948 rechi come sua originalità tra le “carte” del costituzionalismo (lo si è già premesso) le norme cd “programmatiche” culminanti in quella sulla “programmazione globale” dell’economia a fini sociali – ha avuto il pregio di contribuire all’identificazione sempre più precisa dei termini reali in cui già nel ‘900 ha acquisito carattere centrale e dominante il ruolo della moneta e quindi delle “istituzioni” di riferimento.

Nota 2

Sennonché, l’abbacinante apertura di tale prospettiva nei termini della cd “globalizzazione” col suo semplicismo ha avuto il ben noto effetto disarmante perché apoditticamente dogmatico, in quanto si è tradotto nel definitivo snaturamento politico di una formazione che, da “estrema sinistra” ispiratrice del processo di “trasformazione” della società, si è alterata in “sinistra parlamentarista”, ciò che risulta più vistosamente deformante nel “caso italiano” di cui proprio da sinistra si è scatenato proprio quel “rovesciamento teorico/politico” che è stato perseguito sin dalla fondazione della Repubblica delle forze conservatrici, camuffatesi nella Dc e a latere per contrastare l’attuazione della Costituzione segnata dai caratteri innovativi della “democrazia sociale”, mentre in Francia per l’influenza egemonica di De Gaulle – respinto nel 1946 il primo progetto di costituzione per le affinità con quello che sarà nel 1948 il “modello italiano” – dal 1958 e cioè da ben 50 anni vige il sistema cd. “semi-presidenziale” con cui si è flirtato nei dibattiti della Commissione D’Alema del 1997.

L’IMPERIALISMOultima modifica: 2012-02-17T08:20:00+01:00da iskra2010
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