Astengo: ritorna la teoria delle c.d. “due sinistre”

 

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di Angelo Ruggeri *

Il ventennio di totale rovesciamento storico e culturale in nome delle c.d. “due sinistre” figlie della cupidigia di sconfitta.

Pre scriptum stimolato dalla riflessione di Astengo.

La crisi della globalizzazione finanziaria, oltre ad essere impietosa con tutto il sistema sociale e specialmente con i vari proletariati e con il ceto medio, mette a nudo non solo le mistificazioni teorico politiche di tutte le lobbies di cosiddetto centrosinistra, di una delle cosiddette “due sinistre”, cioè quella governativista che si mistifica di “sinistra” dicendosi “sinistra di governo”, ma anche l’assurdità di quelle sinistre cosiddette alternative che – rinunciando alla guida dei principi del materialismo storico – hanno abbandonato la lotte contro l’imperialismo del capitale finanziario, accomodandosi nelle nicchie del potere dominante per unirsi al coro delle rivendicazioni dei diritti “civili” di un radicalismo di massa succubo del potere sociale dei meccanismi istituzionali ed economici transnazionali.

Si che al coperto della mistificazione che possano esserci “due sinistre” quotidianamente cangianti, e delle ideologica e acritica apologia del ruolo dei cosiddetti “mercati finanziari”, hanno portato a predicare – l’una come nuova destra di governo detta “sinistra di governo” e l’altra  come “sinistra alternativa” a tale nuova destra ma definita “sinistra” (di governo)  –  i fasti di una globalizzazione assunta come il passaggio di nuove “colonne d’Ercole” a favore di una ormai incontenibile supremazia universale di un “capitalismo rivoluzionario”, destinato a subordinare le istituzioni statali e sovranazionali al potere economico con inesorabile spiazzamento dei proletariati sparsi per il mondo, in quanto spogliati della stessa ipotizzabilità di fare del “lavoro” l’asse di una fondata critica delle nuove forme di accumulazione della ricchezza.

Si che la crisi é diventata un boomerang perché improvvisamente si è dimostrato ineludibile un tipo di sostegno “politico” al  mercato capitalistico in crisi mondiale a causa del suo carattere (peraltro organico) globale (già segnalato nel “Manifesto del 1848”!), mentre entrambe non avevano voluto ammettere – ne ancora lo fanno – che “anche il “liberismo” è una “regolamentazione” di carattere statale, introdotto per via legislativa e coercitiva, (…) è un programma politico destinato a mutare la distribuzione del reddito nazionale” (ce lo ha ricordato Lunghini nel pubblicare gli Scritti di economia politica di Gramsci, 1994), mentre i liberisti quelli vecchi e quelli nuovi (di destra e sinistra)  sono rimasti divisi tra quanti perseverano nel rivendicare fideisticamente il ruolo “autonomo” dei mercati finanziari, e quanti anche se obtorto collo non esitano a legittimare gli “aiuti di stato”contro ogni precedente enfasi ovvero non solo gli “interventi” dello stato, ma persino contro l’idea stessa che sussista ancora nella realtà “lo stato-nazione”.

È strabiliante così che giorno per giorno, si è arrivati al diretto sostegno al sistema bancario (o parti di esso) nei singoli stati, o alle imprese americane ed europee, sempre nei singoli stati, coperto da cautelose “temporaneità”, “transitorietà”, “provvisorietà” di aiuti che, nel caso dell’Europa, mettono persino in gioco la tenuta dei famosi vincoli di Maastricht, su cui in Italia centrodestra e “sinistra di governo” hanno fatto a gara a chi è più osservante e virtuoso. Mentre dal canto loro le sinistre cosiddette “radicali” (confinate dalla sconfitta elettorale al domandarsi se e come sopravvivere, magari con i “simboli” ma non con i “principi” del comunismo) anch’esse si sono palesate come colpite da un boomerang dalla ricomparsa imprevedibile di un “intervento pubblico” che Rifondazione (specie al tempo degli alleati gruppi di Bertinotti ed ex demo proletari) hanno rievocato nei termini di quella programmazione centralista e antiautonomistica ( contro le autonomie sociali e istituzionali) del centro-sinistra degli anni ‘60, denunciata  dal Pci e dalla parte più classista del sindacato.

La crisi e la dimostrazione del liberismo statalista fa risaltare la responsabilità di quanti nei partiti che erano stati definiti (per delegittimarli) di “estrema sinistra”, e non di “sinistra”, dalla metà degli anni ‘70 hanno concorso a dequalificare quel ruolo che il capitalismo di stato in Italia aveva via via assunto dopo l’entrata in vigore della costituzione anche sulla base delle lotte sociali per contrastare il dominio del capitalismo monopolistico privato rappresentato emblematicamente dalla Fiat, nel significativo periodo degli anni ‘60 quandol’estensione della presenza delle imprese pubbliche industriali e bancarie fu colta dalla parte più consapevole del movimento operaio sostenuto da una parte del Pci e della Cgilper fare della de­mocratizzazione degli apparati del capitalismo di stato, ritenuti dalla Dc e suoi alleati strumento e appannaggio dei partiti di governo (in linea con l’obiettivo di superare in tal modo le contraddizioni del capitalismo privato e di stato), l’asse organizzativo di una strategia di programmazione globale dell’economia finalizzata a esiti sociali, contro il prevalere del principio di “economicità” rivendicati dai gruppi di potere dominanti Ciò, essendo impossibile nella realtà che viviamo l’occultamento dei termini di una dialettica attraverso cui anche il liberismo degli anni ’80-’90 – mai realizzato come tale, fuor che nell’emblema della ideologia dell’economicismo – non solo si è configurato come “regolato” e quindi come la forma “tipica” della statualità e dell’ambiguo concetto di “stato di diritto”ma ha concretamente assunto le forme del “protezionismo” e dello “assistenzialismo” funzionali agli interessi del “capitalismo organizzato”,sia nella costituzione di Weimarsia nel totalitarismo fascista, con le forme contrapposte di stato “sociale” e stato “corporativo”, espressione entrambi di quella inesausta ricerca della “terza via” tra socialismo, socialdemocrazia e capitalismo lanciata e rilanciata sia negli anni ’30 sia negli anni ’80-’90 arrivando sino ad oggi (Blair, Giddens).

Di tali tracce quelle più significative perché risalenti ai presupposti marxiani della critica della proprietà “privata”,riguardano non già (come ci si limita a prospettare dalle “due sinistre” odierne) solo l’aspetto “redistributivo” di una ricchezza ostentatamente di pochi (il 2% contro il 98% dell’umanità, dicono sociologi ed economisti “a la page”); ma anzitutto i criteri della produzione in rapporto al lavoro e alla società e, certo, in funzione anche di una redistribuzione altrimenti destinata ad essere oggetto di attacchi da ogni livello, sia nell’ambito di ogni “stato-nazione” affatto scomparso, benché “autolimitatosi” – ciò che è attestato dalla cd “comunitarizzazione” europea del sistema intergovernativo istituto già dagli stati del “Benelux” a partire dall’inizio anni ‘50 – sia nel nuovo ambito “sovranazionale e internazionale” già a partire dagli accordi degli anni ’70 di Bretton Woods coevi alla nascita dell’Onu nel segno del potere del Fondo monetario internazionale.

Pertanto se si vuol guardare rigorosamente e coerentemente alla prospettiva della democrazia e della democrazia sociale della costituzione e ancor più in una prospettiva della socializzazione e del  socialismo,  occorre demistificare ogni etichettatura di “sinistra”, che copre una mistificazione duplice:

la prima con un’operazione ideologica e tattica insieme identificabile nella ostentata “rottura” complessiva e acritica con il ‘900;,

la seconda additata incongruamente nel segno di una futuribile catarsi lasciando tuttora allo scoperto l’avventurismo con cui si disorienta il fronte del movimento operaio e i suoi alleati frattanto privi di basi fondative sotto l’attacco concentrico di CdL e Unione delle sinistre: sì che per uscire dall’empasse in cui si è costretti a rimanere sino a quando non ci si sarà liberati dalla sudditanza imposta dall’egemonia culturale e politica dei gruppi di potere di supporto del capitalismo internazionale e nazionale, altro non c’è che riconoscere che “tornare alla teoria” comporta la ripresa dell’uso “politico” della teoria marxista come critica dell’economia politica e come critica della teoria del diritto e dello stato, quale articolazione della “filosofia della prassi” di cui Gramsci ha lasciato puntualizzazioni che urge riattualizzare andando oltre i prevalenti esercizi di “filologia” gramsciana oggi in auge, (non solo in Italia ma anche nel nord oltre che nel sud America, a tacere delle manipolazioni di un c.d. “gramscismo sociale” che interessano una destra anelante a sua volta a “modernizzarsi)”. Vanno tenute quindi ben presenti le incisive, molteplici annotazioni riconducibili a unitarietà teorico-politico concernenti l’interdipendenza che già nel ‘900 – a partire dal tipo di assetto dei rapporti tra capitalismo internazionale e nazionale riscontrabili negli anni ’30 nel cono d’ombra della “crisi del 1929” – la filosofia della prassi sapeva cogliere valutando criticamente il nesso tra i rapporti civili e politici e i rapporti economici, sul presupposto che teoricamente “tutto è politica” in quanto si colga che c’è eguaglianza tra “filosofia e politica”, tra pensiero e azione (Q 7 § 35), donde la famosa, perspicua elaborazione del concetto di “blocco storico” come unità tra la natura e lo spirito sì da poter chiarire che i rapporti sociali di produzione sono le strutture di cui l’insieme delle soprastrutture sono il riflesso (Q 8 § 182). In tale angolazione spicca esemplarmente il carattere attuale dell’osservazione di Gramsci circa l’“intransigenza” dell’“economismo” per la sua vocazione storica a una rigida avversione di principio ai “compromessi”, in conseguenza della convinzione ferrea che esistano per lo sviluppo storico “leggi obiettive dello stesso carattere delle leggi naturali” che da luogo e un “fatalismo fatalistico affine a quello religioso”, e alla ripulsa volontaria tendente a predisporre queste situazioni secondo un piano”: ciò che assume tanto maggior rilievo, ove si pensi alla chiarezza con cui Gramsci seppe cogliere l’antitesi tra la ”patente statale” con cui si salvava l’industria privata mediante l’Imi e l’Iri, con una sorta di “nazionalizzazione per rimediare a una certa arretratezza, e la nazionalizzazione da concretare in una fase storica organica e “necessaria allo sviluppo dell’economia verso una costruzione programmatica” (Q 15 § 1°).

Tale anticipazione critica sulla differenza tra sistema di accumulazione privata vista nella logica dell’economismo e sistema di nazionalizzazioni come parte organica di economia programmatica – per cui non è un caso che, sulla spinta delle intese ispirate negli anni 1944-47 dalla strategia togliattiana della “democrazia progressiva” la costituzione repubblicana e antifascista del 1948 rechi come sua originalità tra le “carte” del costituzionalismo (lo si è già premesso) le norme cd “programmatiche” culminanti in quella sulla “programmazione globale” dell’economia a fini sociali – ha avuto il pregio di contribuire all’identificazione sempre più precisa dei termini reali in cui già nel ‘900 ha acquisito carattere centrale e dominante il ruolo della moneta e quindi delle “istituzioni” di riferimento. Al qual proposito Gramsci ha sottolineato quella caratteristica della “rapidità di circolazione” che è la forma del rapporto tra il commercio internazionale e “le divise nazionali” (Q 15§ 5): rapidità che in prossimità dei nostri giorni – nel passaggio dall’automazione all’informatizzazione – è stata viceversa presa a pretesto per proclamare apoditticamente che l’odierna iperbolica velocità dei flussi finanziari, additata come un “assoluto”, segnerebbe di per sé una cesura totale tra il capitalismo di fine secolo XX e quello di inizio XXI secolo.Cesura “totale”, anziché “passaggio di fase” con effetti di trascinamento del rapporto capitale finanziario/capitale industriale sul nesso teorico tra fordismo, società post-moderna, economia post-fordista, dando una lettura della trasformazione dell’impresa (e del capitalismo) “multinazionale ” nell’impresa (e capitalismo) transnazionale tramite la “rete” delle imprese portatrici del fenomeno della “delocalizzazione” e della “deterritorializzazione”: da cui sono state dedotte le conclusioni sulla cd “fine dello stato” nonché “fine del lavoro”, enfatizzando il passaggio dal ciclo della produzione di beni “materiali” al ciclo della produzione di beni “immateriali”, come base fondativa della “economia della conoscenza” su cui si staglierebbe l’avvento del lavoro come fatto sempre più “individuale” al posto del lavoro quale espressione del rapporto tra “occupazione” e società. Sennonché, l’abbacinante apertura di tale prospettiva nei termini della cd “globalizzazione” col suo semplicismo ha avuto il ben noto effetto disarmante perché apoditticamente dogmatico, in quanto si è tradotto nel definitivo snaturamento politico di una formazione che, da “estrema sinistra” ispiratrice del processo di “trasformazione” della società, si è alterata in “sinistra parlamentarista”, ciò che risulta più vistosamente deformante nel “caso italiano” di cui proprio da sinistra si è scatenato proprio quel “rovesciamento teorico/politico” che è stato perseguito sin dalla fondazione della Repubblica delle forze conservatrici, camuffatesi nella Dc e a latere per contrastare l’attuazione della Costituzione segnata dai caratteri innovativi della “democrazia sociale”, mentre in Francia per l’influenza egemonica di De Gaulle – respinto nel 1946 il primo progetto di costituzione per le affinità con quello che sarà nel 1948 il “modello italiano” – dal 1958 e cioè da ben 50 anni vige il sistema cd. “semipresidenziale” con cui si è flirtato nei dibattiti della Commissione D’Alema del 1997.

Donde la necessità di ritrovare la bussola smarrita in nome delle c.d. “due sinistre” ovvero di tornare alla teoria della prassi per ritrovare l’autonoma cultura perduta da quando si è rinunciato alla guida dei principi e al metodo del materialismo storico  per unirsi al coro delle rivendicazioni dei diritti “civili” e dei c.d. “BENI COMUNI” COME FUGA DALLA QUESTIONE DELLA PROPRIETA’ E DELLA LOTTA DI CLASSE CONTRO UN CAPITALISMO CHE DOMINA ENTRAMBE (la proprietà e la lotta di classe ormai “unilaterale” per l’abbandono di entrambe da parte delle “due sinistre”)

* Centro IL LAVORATORE

  

RITORNA LA TEORIA DELLE “DUE SINISTRE”

di Franco Astengo

L’assemblea nazionale di SeL, svoltasi in gran fretta venerdì 31 Agosto, ha in sostanza sancito, attraverso un massiccio voto maggioritario, il ritorno alla non mai abbastanza criticata “teoria delle due sinistre” che i militanti di più lungo percorso politico ricorderanno senz’altro.

L’idea, espressa dal documento sortito dall’Assemblea di venerdì scorso, è, infatti, quella di una “delimitazione” a sinistra, proponendo per la stessa SeL un percorso interno a un’area a “vocazione governativa” per un nuovo centrosinistra collegato a un patto di ferro con il PD (unica eccezione la ricerca di un collegamento, in questa fase molto difficoltoso, con una forza come l’IDV della quale tutto si può dire meno che si tratti di un soggetto appartenente a una possibile area di sinistra).

Si chiude così, anche formalmente, l’ipotesi di un percorso di unità a sinistra, nelle sue diverse componenti, anche nella forma riduttiva di una presentazione elettorale comune, se non di proposta di nuova soggettività: SeL reclama, per intero, l’appartenenza a un altro campo, del resto già ben individuato da tempo nella scelta della forma della soggettività politica, identificata in quel “partito elettorale personale” imperniato sulla figura del leader, con attorno una “rete” di sostegno incondizionato che, poi, riverbera la stessa struttura a livello locale, accettando di fatto il meccanismo del “presidenzialismo – maggioritario”.

D’altro canto la valutazione di questa scelta va posta anche su di un altro piano, non posto in rilievo nel corso dei lavori della già più volte citata Assemblea: quello del diritto di cittadinanza all’interno del sistema politico – istituzionale.

E’ evidente come, in particolare attraverso il dibattito in corso sulla modifica della legge elettorale (dibattito emblematico del punto di caduta al quale è pervenuto l’intero quadro politico oggi presente in Parlamento) e nell’accentuarsi del meccanismo presidenzialista (enfatizzato dalla vicenda “intercettazioni” da qualsiasi lato la si voglia osservare) e dell’affermazione della cosiddetta “democrazia di competenza” in luogo della “democrazia rappresentativa” (un fenomeno sul quale sono intervenuti con puntualità Ilvo Diamanti e Nadia Urbinati) i tre partiti che sostengono il governo dei “tecnici” si stanno muovendo sul terreno del “partito di cartello”, quella formula particolare attraverso la quale si tende, attraverso la formulazione di apposite norme in particolare in materia elettorale, di impedire a nuovi soggetti di entrare a pieno titolo nell’arena politica (o perlomeno, a limitarne l’impatto).

E’ questo il significato insito nelle proposte di premi di maggioranza (al partito, e non alla coalizione: e sarà questo un particolare non indifferente per definire certe strategie), soglie di sbarramento, listini bloccati.

Meccanismi che possono essere aggirati soltanto attraverso un rapporto diretto con uno dei soggetti protagonisti, appunto, del cosiddetto “partito di cartello”, al di là della proclamata autonomia politico-culturale di cui dovrebbero disporre tutti i soggetti organizzati in campo.

L’obiettivo, nello specifico del “caso italiano” di questi tempi è chiaro: quello di fare in modo che, comunque, il governo dei tecnici in una qualche forma (la più possibile vicina all’attuale) resti in sella per proseguire nel suo lavoro di demolizione di ciò che resta, all’interno della crisi, di coesione sociale nel Paese.

Così le due “sinistre”: o perlomeno una presunta sinistra collocata, nel campo, appunto del “partito di cartello” (di cui beninteso fa parte anche la Lega Nord, che a proposito di soglie di sbarramento avrà un trattamento privilegiato).

Ho affrontato soltanto l’aspetto della dinamica politica in atto, senza entrare nel merito delle questioni di qualità della crisi, del livello europeo, della feroce lotta di classe in atto per estirpare definitivamente i diritti dei lavoratori.

Mi è parso decisivo sottolineare al massimo il tema di fondo dell’itinerario tracciato dalle forze maggioritarie in questo momento all’interno del sistema politico, un itinerario al fondo del quale, come ha affermato il ministro Barca, c’è l’idea di una democrazia “inclusiva”, nel senso della delimitazione netta del recinto di governo inteso quale unico riferimento possibile perché si possa disporre di un minimo di agibilità politica.

Per una sinistra che non intenda rassegnarsi a questo meccanismo di assoluta perdita di autonomia culturale e di capacità di iniziativa e intervento non rimane che affermare il principio opposto: quello di proporre il principio dell’affermazione di una democrazia rappresentativa che, a questo punto della crisi economica, sociale, politica e culturale, potrà affermarsi soltanto esponendo un netto segnale d’opposizione a un quadro dominante così pesantemente negativo.

Savona, li 1 settembre 2012 

Astengo: ritorna la teoria delle c.d. “due sinistre”ultima modifica: 2012-10-28T08:20:00+01:00da iskra2010
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