Sezioni comuniste Gramsci-Berlinguer
per la ricostruzione del P.C.I.
di Andrea Montella
Analisi condivisibile quella dell’articolo sotto riportato che inizia così: “Una “Cosa sola”. Mafia siciliana, ’ndrangheta, massoneria, pezzi dei Servizi deviati e strutture paramilitari”, manca però un particolare a definire quella nuova strategia della tensione antiproletaria: è impossibile che gli Usa, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania, il blocco massocapitalista dell’imperialismo, che hanno mantenuto l’Italia un Paese a sovranità limitata, non sapessero nulla di ciò che stava accadendo, alla luce della loro forte presenza nel nostro Paese dal Risorgimento in poi, sino ai nuovi assetti sorti dopo la seconda guerra mondiale.
In quel periodo, 1992-1994, era in corso una lotta anche all’interno delle varie obbedienze della massoneria tanto da determinare la spaccatura nel Grande Oriente d’Italia e l’abbandono del gran maestro Giuliano Di Bernardo. Quelle di rito francese, contro quelle di rito anglosassone, a loro volta contro quelle di rito germanico per papparsi le risorse del nostro Stato.
Dissidi a suon di bombe e stragi anche davanti a luoghi importanti per la massoneria come Villa Reale a Milano che guarda caso sta in via Palestro, luogo della strage del 27 luglio 1993. In quel luogo il figliastro di Napoleone Bonaparte, Eugenio di Beauharnais divenne il primo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, fondato il 20 giugno 1805.
Come si può vedere anche le bombe portano il grembiulino.
Saluti comunisti.
“Arrivò Forza Italia, i boss ordinarono: basta stragi”
Il pm Lombardo: “Siciliani, calabresi, camorra e Servizi deviati erano Cosa sola”
di Enrico Fierro
Una “Cosa sola”. Mafia siciliana, ’ndrangheta , massoneria, pezzi dei Servizi deviati e strutture paramilitari. Sono questi gli attori sulla scena dell’Italia del biennio di fuoco ’93-’94. La Prima Repubblica è agonizzante, il crollo del Muro di Berlino ha rimesso in discussione assetti politico-istituzionali che duravano da un quarantennio. Si ridisegna il potere. Mafie e pezzi deviati dello Stato vogliono essere della partita, ma da protagonisti. Per questo mettono a disposizione uomini e mezzi, attivano nuove relazioni istituzionali e contatti politici. Sono mente e braccio della nuova strategia. Una strategia che nel biennio di fuoco si chiama terrorismo.
Bombe, attentati, un disegno di destabilizzazione che punta ad accelerare il crollo del vecchio sistema. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati già uccisi, ma non basta. La “guerra totale” allo Stato, così la chiama Gaspare Spatuzza, boss della famiglia Graviano, prevede altri morti. Il 1993 è l’anno delle bombe: 14 maggio, Roma, via Fauro, attentato a Maurizio Costanzo; 27 maggio, via dei Georgofili a Firenze; 27 luglio, via Palestro a Milano; 28 luglio, Roma, San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro. Una sequenza impressionante che doveva concludersi con “la madre di tutti gli attentati”, una macchina imbottita di tritolo e bulloni di ferro allo Stadio Olimpico di Roma destinata a far strage di carabinieri. L’attentato fallisce. Come fallisce una bomba destinata ad uno dei pentiti più odiato da Cosa nostra, Totuccio Contorno, riparato a Formello. La strategia “si arresta o si depotenzia non appena i Corleonesi, la ’ndrangheta ed altre organizzazioni criminali come la camorra e la Sacra corona unita trovano nel nuovo partito di Forza Italia la struttura più conveniente con cui relazionarsi”: affermazione destinata a provocare scontri e polemiche, fatta dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. Il magistrato indaga da anni sulla ’ndrangheta di serie A, quella che non si limita alla coppola e alla lupara, ma che da sempre ha costruito relazioni importanti con pezzi della politica e dello Stato.
L’inchiesta della Dda di Reggio ricostruisce l’assassinio di due carabinieri, Antonino Fava e Giuseppe Garofalo, avvenuto il 18 gennaio 1994. Un episodio drammatico, per anni relegato nelle cronache minori. Quell’uccisione, compresi altri attentati ai carabinieri reggini, rientrava invece in un disegno preciso. “La necessità, per le mafie, di partecipare a quella complessiva opera di ristrutturazione degli equilibri di potere che in quegli anni si stavano rimodellando”, una “strategia terroristica mafiosa” al servizio di un piano “più alto, che prevedeva la sostituzione di una vecchia ed (oramai) inaffidabile classe dirigente”. Bombe, sempre firmate ed annunciate ad agenzie di stampa e giornali dalla “Falange Armata”. Un’organizzazione virtuale, una sigla usata non solo dal network mafioso, ma da pezzi del Sismi (dalla Settima divisione dell’allora servizio segreto militare) e dall’organizzazione paramilitare Gladio, in quegli anni in via di smantellamento.
Tutti, nel nuovo assetto che si andava delineando, volevano conservare quote di potere. Della Falange Armata sa qualcosa l’ambasciatore Paolo Fulci. Nell’aprile del 1993 lo nominano capo del Cesis, l’organismo di coordinamento dei due sevizi segreti, e subito iniziano le minacce e la campagna di “intossicazione”. La firma è della Falange, ma le microspie nel suo appartamento sono opera degli stessi Servizi. Un’inchiesta poderosa, quella della procura di Reggio Calabria, che smonta la teoria fin troppo abusata di una ’ndrangheta disinteressata alle manovre stragiste dei Corleonesi e dei loro alleati istituzionali. “Che la ’ndrangheta non sia coinvolta nella logica delle stragi voluta da Totò Riina – ha detto il pm Lombardo – è solo falsa politica. Numerose dichiarazioni che abbiamo riscontrato di collaboratori calabresi e siciliani, che erano disperse in decine di inchieste separate, ci hanno permesso di ricostruire un mosaico che dà dignità a questa inchiesta”.
Una “Cosa sola”. Mafia siciliana, ’ndrangheta , massoneria, pezzi dei Servizi deviati e strutture paramilitari. Sono questi gli attori sulla scena dell’Italia del biennio di fuoco ’93-’94. La Prima Repubblica è agonizzante, il crollo del Muro di Berlino ha rimesso in discussione assetti politico-istituzionali che duravano da un quarantennio. Si ridisegna il potere. Mafie e pezzi deviati dello Stato vogliono essere della partita, ma da protagonisti. Per questo mettono a disposizione uomini e mezzi, attivano nuove relazioni istituzionali e contatti politici. Sono mente e braccio della nuova strategia. Una strategia che nel biennio di fuoco si chiama terrorismo.
Bombe, attentati, un disegno di destabilizzazione che punta ad accelerare il crollo del vecchio sistema. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati già uccisi, ma non basta. La “guerra totale” allo Stato, così la chiama Gaspare Spatuzza, boss della famiglia Graviano, prevede altri morti. Il 1993 è l’anno delle bombe: 14 maggio, Roma, via Fauro, attentato a Maurizio Costanzo; 27 maggio, via dei Georgofili a Firenze; 27 luglio, via Palestro a Milano; 28 luglio, Roma, San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro. Una sequenza impressionante che doveva concludersi con “la madre di tutti gli attentati”, una macchina imbottita di tritolo e bulloni di ferro allo Stadio Olimpico di Roma destinata a far strage di carabinieri. L’attentato fallisce. Come fallisce una bomba destinata ad uno dei pentiti più odiato da Cosa nostra, Totuccio Contorno, riparato a Formello. La strategia “si arresta o si depotenzia non appena i Corleonesi, la ’ndrangheta ed altre organizzazioni criminali come la camorra e la Sacra corona unita trovano nel nuovo partito di Forza Italia la struttura più conveniente con cui relazionarsi”: affermazione destinata a provocare scontri e polemiche, fatta dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. Il magistrato indaga da anni sulla ’ndrangheta di serie A, quella che non si limita alla coppola e alla lupara, ma che da sempre ha costruito relazioni importanti con pezzi della politica e dello Stato.
L’inchiesta della Dda di Reggio ricostruisce l’assassinio di due carabinieri, Antonino Fava e Giuseppe Garofalo, avvenuto il 18 gennaio 1994. Un episodio drammatico, per anni relegato nelle cronache minori. Quell’uccisione, compresi altri attentati ai carabinieri reggini, rientrava invece in un disegno preciso. “La necessità, per le mafie, di partecipare a quella complessiva opera di ristrutturazione degli equilibri di potere che in quegli anni si stavano rimodellando”, una “strategia terroristica mafiosa” al servizio di un piano “più alto, che prevedeva la sostituzione di una vecchia ed (oramai) inaffidabile classe dirigente”. Bombe, sempre firmate ed annunciate ad agenzie di stampa e giornali dalla “Falange Armata”. Un’organizzazione virtuale, una sigla usata non solo dal network mafioso, ma da pezzi del Sismi (dalla Settima divisione dell’allora servizio segreto militare) e dall’organizzazione paramilitare Gladio, in quegli anni in via di smantellamento.
Tutti, nel nuovo assetto che si andava delineando, volevano conservare quote di potere. Della Falange Armata sa qualcosa l’ambasciatore Paolo Fulci. Nell’aprile del 1993 lo nominano capo del Cesis, l’organismo di coordinamento dei due sevizi segreti, e subito iniziano le minacce e la campagna di “intossicazione”. La firma è della Falange, ma le microspie nel suo appartamento sono opera degli stessi Servizi. Un’inchiesta poderosa, quella della procura di Reggio Calabria, che smonta la teoria fin troppo abusata di una ’ndrangheta disinteressata alle manovre stragiste dei Corleonesi e dei loro alleati istituzionali. “Che la ’ndrangheta non sia coinvolta nella logica delle stragi voluta da Totò Riina – ha detto il pm Lombardo – è solo falsa politica. Numerose dichiarazioni che abbiamo riscontrato di collaboratori calabresi e siciliani, che erano disperse in decine di inchieste separate, ci hanno permesso di ricostruire un mosaico che dà dignità a questa inchiesta”.
27 luglio 2017