Dall’antiproporzionale all’autoritarismo d’impresa e Stato

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di Angelo Ruggeri

Dal “revisionismo storico” al “revisionismo teorico”, al “revisionismo elettorale antiproporzionale”, al “revisionismo costituzionale”, al “revisionismo del sistema sociale e politico” nato dalla Resistenza e sancito dalla Costituzione, ai “governi blindati” (non solo in Italia) con tecnica elettorale antiproporzionale. 

Per una legge elettorale ispirata al principio proporzionale integrale, per rilanciare il pluralismo sociale e politico e la lotta sociale contro il dominio del potere d’impresa capitalistico delle Società anonime per Azione 

Il sistema elettorale “proporzionale”, che è stato l’architrave di un processo di democratizzazione, é caratterizzato da un ruolo attivo delle organizzazioni del movimento operaio, sì da trasferire, nelle assemblee elettive, il peso della combattività espressa nei rapporti di lavoro. Ciò perché, pregiudizialmente ed in linea di principio, il proporzionale riguarda ed è legato alla connessione tra pluralismo sociale e pluralismo politico, ai fini dello sviluppo di una conflittualità non dominata dalla destra sociale e politica. 

Viceversa, VENUTO MENO L’ARCHITRAVE DEL PROPORZIONALE “PURO”, da un ventennio SI CONSOLIDA L’IMPORSI – da prima implicito, ed ora anche esplicito, – DEL REVANSCISMO TEORICO E POLITICO-SOCIALE DI UNA DESTRA VARIEGATA, VOLTA AD IMPORRE I VALORI “GERARCHICI” CHE QUALIFICANO IL PRIMATO DEL “PRIVATO” E DELL'”ECONOMIA”, PER CONIUGARE L’AUTORITARISMO “SOCIALE” DELL’IMPRESA E L’AUTORITARISMO “POLITICO” DELLE ISTITUZIONI, senza la possibilità, quindi, di prevenire un nuovo debordo verso il totalitarismo che, storicamente, ha già registrato (nel 900, appunto) l’inidoneità della “democrazia formale” a contenere i conflitti connaturati alle contraddizioni della “complessità sociale”. 

Per comprendere l’interdipendenza tra proporzionale puro e lotte sociali, potrebbe bastare anche solo ricordarsi che, con il proporzionale “puro”, dal 1945 agli anni 90, i governi in carica cadevano ad ogni sciopero generale, sia confederale che anche della sola Fiom e, pure se proclamato, – come avvenne realmente con Sabatini a cui la destra Pci disse “se va male….”- in contrasto con la CGIL e il PCI. 

Viceversa, da quando non c’è più il proporzionale, i governi non cadono mai per la lotta di una opposizione politica o sociale o per uno sciopero generale, perché, senza il proporzionale, i governi sono blindati da maggioranze ottenute tramite o premi di maggioranza e/o l’uninominale o da sbarramenti che tolgono i voti a chi non supera la soglia e li ridistribuisce maggioritariamente a chi la supera, creando maggioranze parlamentari che non sono tali nel Paese o non corrispondono ai reali rapporti di forza sociali esistenti nella società. Per questo i governi possono cadere solo dall’interno della maggioranza stessa, con lotte di potere e di interesse personale, tra gruppi e camarille di vertice del governo e della maggioranza. 

“…Con il principio maggioritario, che sotto il segno di “destra/sinistra” si limita a rappresentare la dicotomia, la diversità degli interessi e dei rapporti tutti interni alla classe dirigente della borghesia vecchia e nuova, si ritorna ad una tipologia di rapporti politico-istituzionali che , da quando è nato lo stato di diritto, dietro alla cifra elettorale che segna il limite tra maggioranza e minoranza, cela il dato più essenziale che è rinvenibile nel fatto che il conflitto di classe viene rimesso (e con ciò occultato) alle sole forze che si suddividono l’arena parlamentare (dalla quale vengono escluse le forze che collidono con il sistema capitalistico), tagliando fuori la classe operaia con il ritorno alle forme politiche di una rappresentanza non più anche sociale e di classe ma solo di “ceto politico”, che si divide solo per la gestione delle “spoglie del potere”, avendo preventivamente tutti optato – come quotidianamente tutti ribadiscono – per i valori del mercato, in sintonia con i potentati economico-finanziari…”. 

L’inanità della “sinistra parlamentaristica” – che si manifesta oggi così, come nel dipanarsi da lunga data in Italia di una congiuntura politica segnata dalla “defaillance” cronica delle forze politiche della “sinistra”, della diade destra/sinistra del maggioritario – è la manifestazione palmare dello scadimento cui la c.d. “sinistra” ha decisamente contribuito a mortificare una contraddizione sociale acuitasi rispetto alle vicende del XX secolo, sostituendola con una contesa di gruppi di potere all’esasperata ricerca di conquistare il governo delle istituzioni per cupidigia di spazi gestionali da amministrare secondo principi ispirati alla medesima ideologia, che vuole il mercato internazionale e nazionale come metro di misura dei valori della convivenza sociale, fatti salvi i differenziali che non sono rappresentati da una netta contrapposizione tra “liberisti” puri e “socialdemocratici”, ma da alternative riguardanti soltanto le forme dell’assistenzialismo alle imprese e quelle agli strati più deboli della società, nonché la qualificazione delle rispettive “elemosine” di stato. 

Il ricondurre la lotta politica, come scontro di fazioni, al significato reso dall’immagine che viene data dal sedersi a destra o a sinistra degli scranni parlamentari, cioè al “luogo” di collocazione parlamentare delle forze che – rispettivamente – sostengono (destra) o contrastano (sinistra) il governo, assume oggi una portata che è ben più grave e stravolgente del significato attribuibile alle motivazioni che, dalla fine del ‘700 in poi, hanno visto combattersi gruppi espressi dalla borghesia sia prima che dopo l’introduzione del suffragio universale “maschile”:

e ciò in quanto, dopo la svolta storica del nascere e legittimarsi dei partiti di massa (con relativa appendice sindacale), era entrata in crisi la cultura politico-istituzionale costantemente imperniata sul modello inglesenonché con la variante del presidenzialismo, Nordamericano -, modello che vede nel sistema elettorale “uninominale” e maggioritario il cardine della separazione in “destra/sinistra” della cosiddetta “classe politica” ideologicamente omogenea, con posizioni che raffigurano rispettivamente i luoghi di maggioranza/minoranza e governo/opposizione.

Con il solo obiettivo di “stabilizzare”, con il governo di legislatura, il partito “unico” al vertice dello stato – solo formalmente “diviso” in due -, limitabile solo in sede di mero “controllo” ad opera della parte rappresentativa della società posta così in una posizione di statica attesa per il “ricambio” nella cosiddetta alternanza.

Il revisionismo teorico insito in quello storiografico attivato e alimentato dalla borghesia, messo in atto a partire dalla fine degli anni ’80 del secolo XX – revisionismo che nel suo carattere universale ha varie articolazioni di cui qui si valuta la più provocatoria –, ha come suo epicentro mistificante (perché nasconde ambiguamente la motivazione “sociale” dietro il principio ideologico della “razionalizzazione” efficientistica) l’abbandono del sistema elettorale “proporzionale” che è stato l’architrave di un processo di democratizzazione, e che, pregiudizialmentte ed in linea di principio, è legato alla connessione tra pluralismo sociale e pluralismo politico ai fini dello sviluppo di una conflittualità non dominata dalla destra sociale e politica, e caratterizzata da un ruolo attivo delle organizzazioni del movimento operaio, sì da trasferire nelle assemblee elettive il peso della combattività espressa nei rapporti di lavoro. 

Il principio maggioritario, infatti, con il ritorno ad una tipologia di rapporti politico-istituzionali, che sotto il segno di “destra/sinistra” si limita a rappresentare la natura dicotomica dei rapporti tutti interni alla classe dirigente della borghesia vecchia e nuova da quando è nato lo stato di diritto, dietro alla cifra elettorale che segna il limite tra maggioranza e minoranza, cela il dato più essenziale che è rinvenibile nella rimessione del conflitto di classe alle sole forze che si suddividono l’arena parlamentare (dalla quale vengono escluse le forze che collidono con il sistema capitalistico), tagliando fuori la classe operaia con il ritorno alle forme politiche di una rappresentanza non più anche sociale e di classe ma solo di “ceto politico”, che si divide solo per la gestione delle “spoglie del potere”, avendo preventivamente tutti optato – come quotidianamente tutti ribadiscono – per i valori del mercato, in sintonia con i potentati economico-finanziari. 

La gravità di un tale “revirement” storico e culturale, è misurabile con il fatto che, a distanza di un secolo e mezzo dagli albori dello stato moderno, si è venuta determinando una situazione che vede sostanziale equivalenza tra gli effetti del suffragio “censitario, che delegittimava dalla titolarità dei diritti politici il proletariato ottocentesco, e gli effetti che in regime di suffragio universale (sinanco esteso alle donne e con un allargamento della fascia d’età prevista per l’esercizio del diritto di voto) conseguono alla progressiva autoesclusione dal voto – con l’astensionismo –, da parte di un elettorato popolare che, escluso dall’arena politico-istituzionale, rifiuta di dare fiducia ad un sistema nel quale i processi di democratizzazione, risultano sviliti da parte dei vertici delle formazioni politiche diventate interpreti di un nuovo tipo di trasformismo. Un trasformismo ravvisabile nel fatto che, comunque, un nucleo ristretto di tali vertici “occupa” un posto di privilegio nel “palazzo”, incurante che la “sconfitta”, in termini reali, sia solo e interamente posta a carico dei gruppi sociali, in nome dei quali, solo verbosamente, tali vertici dichiarano di partecipare al “gioco” parlamentare. 

Non è per caso, ma per l’imporsi di un nuovo tipo di lettura della realtà sociale e politica, che, nei momenti di più intensa lotta di classe, non si sia parlato più di “destra/sinistra” nè di “conservatori” e “progressisti” ma di “estrema sinistra” (non semplice “sinistra”), di “rossi” e comunisti in antitesi a forze “reazionarie” e “moderate”, proprio per la necessità di riprodurre, in sede di analisi socio-politica-istituzionale, il senso di una dislocazione delle forze contrapposte che diveniva incompatibile con quella nella quale, alla lotta per lo stato – stato di diritto borghese in nome della libertà economica e della libertà politica della parte aristocratica della società -, si è sostituita la lotta per il superamento dello stato di diritto in nome di parole d’ordine del tutto nuove, come “emancipazione” e “democrazia sostanziale”, la cui portata innovatrice è stata tale da incidere profondamente sulla stessa struttura e funzione dei partiti della classe operaia, attraverso la nota “querelle” dei rapporti tra socialisti e comunisti. 

Destra/sinistra, soprattutto oggi, è una diade che con tecnica elettorale maggioritaria-uninominale o sbarramenti, nasconde un appiattimento omologante, e la stessa discussione se in Italia vi sia una o più “sinistre”, contribuisce ad allontanare nel tempo la possibilità di una nuova presa di coscienza di massa.

Presa di coscienza che richiede un incardinamento dell’opposizione politica sull’opposizione sociale che scavalchi la diade “parlamentaristica” destra/sinistra, proprio per fare delle istituzioni rappresentative un passaggio e non un obiettivo, riattribuendo alla società civile il ruolo di formazione e impostazione degli indirizzi politici (confiscato dai vertici partitici e istituzionali), capaci di coniugarsi con lotte volte a trasformare i rapporti sociali e non a registrarli e mantenerli. Tanto più oggi che – ad onta della demonizzazione dei rapporti di classe negli stati nazionali – le trasformazioni in corso legittimano il rilancio dell’internazionalismo – da sempre bandiera del movimento operaio – come antitesi, resa più matura e potenziata, alla “globalizzazione” dei poteri finanziari, operata, sia attraverso le istituzioni nazionali che sovranazionali. 

Il dipanarsi, da lunga data di una congiuntura politica segnata dalla “defaillance” cronica delle forze politiche della “sinistra”, della diade destra/sinistra del maggioritario impone un tipo di riflessione di tipo nuovo, che non si attardi sulla contingenza(sull’analisi delle modalità contingenti di una politica internazionale, economica e sociale) inidonea a contenere il dilagare delle forze conservatrici e cripto reazionarie.

Serve affrontare con più decisione e con più rigore le questioni politico-sociali ed anche teoriche che sono alla base del vero e proprio capovolgimento che si è verificato specie nell’ultimo ventennio (cosiddetto anche quello fascista) ancora in corso, un capovolgimento grave, ancor più che per l’avvento al governo di formazioni politiche neo-conservatrici e di destra, per il riaffermarsi in modo trasversale alla diade del bipolarismo determinato con tecniche elettorali (maggioritario-uninominale-sbarramenti ecc.), di valori contrastanti con quelli della Resistenza antifascista che erano stati il fondamento del ritorno alla democrazia dopo la sconfitta del nazi-fascismo. 

Sembra necessario riprendere una riflessione e un dibattito che – di fronte agli effetti perversi del sistema politico e sociale dell’ultimo ventennio del ‘900 – sappia coniugare la critica al “revisionismo storiografico” della cultura borghese, volto a delegittimare e addirittura criminalizzare l’idea stessa della rivoluzione non solo “socialista” ma sinanco “democratica e antifascista”, alla critica del “revisionismo teorico” di “sinistra” che si annida nel primo. Revisionismo teorico che sta conseguendo risultanti devastanti perché, accodandosi al revisionismo storiografico, non coglie l’occasione per rafforzare la rivendicazione della legittimità storica della rivoluzione perseguita dal movimento operaio con le sue alleanze sociali, attraverso l’individuazione delle contraddizioni che hanno pesato nelle esperienze di lotta sociale e politica per una transizione dal liberalismo/liberismo al socialismo: E’ A CAUSA DELLA NON RIVENDICAZIONE DELLA LEGITTIMITA’ STORICA DELLA RIVOLUZIONE PERSEGUITA DAL MOVIMENTO OPERAIO CONTRO IL LIBERAL-LIBERISMO BORGHESE, CHE SI CONSOLIDA L’IMPORSI – da prima implicito, ed ora anche esplicito – DEL REVANSCISMO TEORICO E POLITICO-SOCIALE DI UNA DESTRA VARIEGATA, VOLTA AD IMPORRE I VALORI “GERARCHICI” CHE QUALIFICANO IL PRIMATO DEL “PRIVATO” E DELL'”ECONOMIA”, per coniugare autoritarismo “sociale” dell’impresa e autoritarismo “politico” delle istituzioni, senza possibilità quindi di prevenire un nuovo debordo verso il totalitarismo che, storicamente, ha già registrato (nel 900, appunto) l’inidoneità della “democrazia formale” a contenere i conflitti connaturati alle contraddizioni della “complessità sociale”. 

Allo scopo di evitare che il dibattito e la riflessione politico-sociale, ma anche teorica, non si configuri come “accantonamento” ed astrazione dal reale immediato dell’intervento critico sulla situazione sociale e politica in atto, è opportuno che la discussione coinvolga non solo la denuncia degli obiettivi del capitalismo privato e della strategia della destra politica, ma anche i limiti oggettivi e soggettivi di partiti e sindacati che, in qualche modo, tengono ancora rapporti con il movimento operaio, facendo cioè riferimento alla critica dei termini stessi in cui questi ultimi si autodefiniscono e attivano le loro piattaforme programmatiche ignorando o sottovalutando l’interdipendenza tra lotte e pluralismo sociali e lotta e pluralismo politici, con più o meno netto disancoramento dalle tendenze teorico-politiche che in tutto il 900 – soprattutto a partire dalla “Rivoluzione d’Ottobre” –, hanno caratterizzato le lotte per la “democrazia sostanziale”, in nome dell’emancipazione e della modifica dei rapporti sociali e di produzione capitalistici.

Su tali premesse, la prima questione che si affaccia e che vale a coinvolgere l’attenzione di massa a problemi politco-sociali e teorici che, da tempo, sono stati abbandonati, concerne il ripensamento rispetto al “revisionismo elettorale antiproporzionale” operato dalle forze politiche eredi del post-fascismo che, in nome di una contrapposizione “destra-sinistra”, cancellando il proporzionale integrale che dal 1945 è stato l’architrave di un processo di democratizzazione, in modo schematico ma esemplare, cancellano tutto il tratto di storia sociale e politica che ha caratterizzato i conflitti nella società di massa, segnando di sè tutto il ‘900 con il superamento dellaforma di stato e della forma di governo cui si era improntato il liberalismo politico che – con le ben note imperfezioni – aveva cercato, nel continente europeo, di imitare il modello britannico. 

Dall’antiproporzionale all’autoritarismo d’impresa e Statoultima modifica: 2011-11-09T08:30:00+01:00da iskra2010
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