Post-democrazia Anni 80-90-2000

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di Angelo Ruggeri

Dalla Repubblica presidenziale proposta da Calamandrei e respinta dalla Costituente, al “limitare la democrazia” della Trilateral del capitalismo, al presidenzialismo della P2 di Gelli e proposto dal Repubblicano  Pacciardi, al presidenzialismo neo-fascista di centrodestra e centrosinistra di oggi, passando all’antiproporzionale  Legge Truffa maggioritaria del 1953 all’antiproporzionale Legge Truffa maggioritaria-uninominale del “mattarellum” 1993 

TRA REVISIONISMO STORICO e REVISIONISMO GIURIDICO

 LA COSTITUZIONE DEL 1948 tra i Piani Trilateral e P2 e l’edificazione della postdemocrazia degli anni 90 in Europa e nell’Italia di Maastricht il revisionismo giuridico di cui hanno approfittato il centrodestra e il centrosinistra, Napolitano e il governo Monti risale già alla metà degli anni ’70;  da quando cioè si è manifestato nei termini più cruenti lo scontro di classe, già alimentato dal movimento operaio e dilatatosi con l’esplodere della “contestazione” dei movimenti muniti di una coscienza anticapitalistica, ben più consapevole di quella interna ai movimenti “no-global” odierni. 

Il fatto, risultato decisivo, che sia pure di stretta misura (e appunto grazie all’estremo pluralismo provocato dalla resistenza alle inaccettabili pretese di “dominio” della “centralità” DC), non abbia potuto operare la famosa “legge-truffa” del 1953 volta a “formalizzare” le distorsioni in senso “maggioritario” del principio proporzionalistico, non toglie che, con il concorso della maggioranza dei giuristi, in Italia abbia operato quella che è stata chiamata “democrazia bloccata” e quindi “incompiuta”, con il concorso dei “politologi” venuti a consacrare le mistificazioni di una giurisprudenza ancorata alla nefasta teoria della “costituzione materiale”: per cui si è parlato di democrazia resa “difficile” da un “bipartitismo imperfetto”, raffigurato da Sartori (divenuto maestro di dottrina del “centro-sinistra” attuale) con l’immagine del “triciclo”, le cui “ruote estreme” erano identificate e nel Pci e nel Msi: essendo il centro comunque organicamente anticomunista.

 

 

Prima parte

Senza sminuire l’incidenza negativa di una tendenziale insensibilità/estraneità dei comunisti  (dirigenti di partito e di sindacato, intellettuali “specialisti”  come filosofi, storici, sociologi, economisti oltre che, e soprattutto, “giuristi”) ai problemi del rapporto tra lotta di classe e diritto a cominciare dalla “costituzione”, dobbiamo denunciare di fronte all’iter cui è pervenuto il progetto di “revisione della Seconda Parte” della Costituzione italiana del 1948 dopo trentanni di avvio della strategia delle “riforme istituzionali”) la fase che segna pericolosamente sul piano, prima della cultura, e poi della politica, il prevalere di un revisionismo che accomuna il più visibile tentativo “berlusconiano” di rovesciare la portata degli esiti della sconfitta del nazifascismo, con il più mistificatorio, ma operativamente penetrante, revisionismo giuridico, la cui specifica portata è quella di omologare, con “tecniche” disparate ma univoche, persino le più distanti concezioni del potere  ispirantisi alle diverse “filosofie politiche”, e relative “teorie politiche” dello stato.

Ed, infatti, nel campo marxista se nel periodo 1944-1978 si è molto stentato a riconoscere che la Costituzione entrata in vigore col suo originale modello formale nel 1948 non poteva essere conseguentemente valorizzata confondendo la strategia volta ad un processo di trasformazione sociale e politica della società e dello stato con la versione “tattica” della “democrazia progressiva” cui si è dovuta piegare la metodologia complessiva di Togliatti, oggi si è nella condizione oggettiva di prendere atto della qualità differenziale che tale modello è intervenuto a documentare rispetto, non solo ai modelli del costituzionalismo ottocentesco e del primo novecento, ma anche a quelli del secondo novecento (come quello della Germania di Bonn, e della Francia divenuta rapidamente “gollista” nel 1958): e ciò in quanto le une e le altre rientrano negli schemi dottrinari di tipo conservatore o neo conservatore che la dottrina giuridica raffigura come varianti del prototipo combinatorio dell’endiadi capitalismo/autoritarismo, rappresentati – storicamente e convergentemente – dal modello britannico del “premier” e dal modello statunitense c.d. “presidenzialista”.

A diradare le nebbie dai fraintendimenti di chi ha visto il rapporto tra democrazia e socialismo in termini dogmatici, senza valutare sino in fondo le implicazioni istituzionali dell’organizzazione del potere necessario a superare gli istituti politico-economico-sociali del capitalismo privato e del capitalismo di stato, è intervenuta quella tendenza al revisionismo storico le cui linee di indirizzo si articolano su due filoni teorici convergenti: l’uno, estraneo al modello della costituzione italiana del 1948 proprio in contrasto con l’antifascismo, ha segnato, di sé, l’ideologia della Costituzione contro il fascismo e il neo-fascismo, e l’altro, risalente alla stessa fase elaborativa di tale modello senza  tuttavia riuscire a caratterizzarlo, stante la consistenza minoritaria della cultura ispirata all’idea dello “stato moderno” di quel “partito d’azione” che, non a caso, si è dissolto nel 1947, mentre cioè esplodeva il conflitto ideologico internazionale e veniva approvata tuttavia la nuova costituzione entrata in vigore l’anno dopo.

Infatti se si colloca il lavorìo volto – come incautamente si è detto (e si ripete ) – ad “adattare” la costituzione alle nuove forme della società, ma sfociato nel progressivo maturare dei tentativi reiterati di pervenire alterando il metodo della “revisione” costituzionale ad una “seconda” (o “terza”) repubblica (pur senza ricorrere all’elezione di una assemblea costituente) nel contesto delle vicende internazionali e nazionali che l’hanno accompagnato, si può  cogliere la duplice traiettoria che ha segnato con la tradizionale “separatezza” l’intervento “controriformatore” in una realtà che veniva enfatizzata nel segno ideologico della “innovazione” (la rivoluzione tecnologica, con le sue varie implicazioni), per mascherare  quel processo involutivo rivelato dalla conversione “ideologica” verso il “primato del capitalismo”  proprio di quelle forze che avevano aperto un nuovo orizzonte di lotta sociale e politica negli anni 1944-48, raffigurando nel modello della costituzione il nuovo criterio di legittimazione del potere in nome del primato della democrazia, e quindi dell’utilità sociale sugli interessi organizzati con radicamento sugli istituti della proprietà e dell’impresa.

Il ritorno a quelle separatezze che, nel segno del marxismo, la nuova cultura democratica aveva cominciato a superare, si è così delineato a partire dalla fine degli anni ’70, con la rimonta divenuta oggi eclatante di un “giurisdicismo” che negli anni ’60-70 era stato confinato negli anfratti di una scienza giuridica costretta finalmente a misurarsi con i nessi tra politica ed economia che l’acuirsi del conflitto di classe esaltava  oggettivamente per la forza innovatrice dei principi costituzionali configuranti la legittimazione del “controllo sociale e politico del sistema produttivo”: con tutte  le conseguenze che ciò comportava  a causa del carattere pervasivo dell’antitesi capitalismo-socialismo, impostata dai comunisti italiani (sulla base di matrici marxiste eterodosse rispetto al “socialismo reale”, con i vari “distinguo” imposti nel tempo dai casi Urss, Cina, Jugoslavia, Cuba), in vista dei processi di transizione prospettati nell’Occidente Europeo ove era, ed è rimasto emblematico, il “caso italiano” per aspetti che tuttora si segnalano trovando riferimento nella costituzione.

Il procedere “parallelo” del revisionismo storico e del revisionismo giuridico con l’obiettivo di restituire anche l’Italia alle condizioni da cui dipende una costruzione coerente del “sistema-Europa” come preconizzato sin negli anni ’50 dalle classi dirigenti anticomuniste che hanno firmato i primi dei numerosi Trattati succedutisi   sin qui, ha accompagnato un’operazione di liquidazione dell’antifascismo in quanto movimento ideologico perché egemonizzato dai comunisti (tramite Resistenza, lotta partigiana e potere dei Cln), nascondendo dietro ai tentativi addirittura di equiparare nazismo e comunismo l’interesse reale e preminente a delegittimare il fondamento dell’introduzione di forme di potere di controllo del sistema produttivo proprio del capitalismo, da cui solo possono conseguire quei “diritti sociali” che il liberismo rigetta in linea di principio , accettando a malincuore come “compromissoria” la concezione “assistenzialistica” del cosiddetto “stato sociale” di ispirazione corporativa, sia in senso socialdemocratico che in senso fascista.

L’operazione, volta a demonizzare, dopo la caduta del 1989, la rivoluzione d’ottobre, viene occultata persino dietro l’alternativa tra “violenza” e “non violenza” oggi inopinatamente riesumata da una sinistra “parlamentarista” piegatasi al rigetto dell’idea stessa di “democrazia sostanziale” perché implica una trasformazione dei rapporti socio-politici assunti in un intreccio tra elementi strutturali ed elementi sovrastrutturali entro  un modello di organizzazione dei rapporti tra società e stato incompatibile con il costituzionalismo “liberal-liberista”, nella prospettiva del passaggio dal capitalismo ad una transizione socialista: e la novità stava nell’intendere il ruolo “soggettivo” del concorso dei comunisti all’elaborazione di una “costituzione-programma” ben più che come mera predisposizione ad entrare nel governo dello stato (la “stanza dei bottoni” perseguita poi dai socialisti), come impegno a guidare le lotte sociali e politiche conformando “oggettivamente”  le istituzioni politiche all’obiettivo di condizionare il potere economico (grandi concentrazioni finanziarie e industriali), facendo prevalere in nome del “lavoro” gli interessi collettivi sul profitto.

Ciò significa, proprio per stare al caso italiano – senza peraltro scinderlo dai processi di sempre maggiore internazionalizzazione del capitalismo già ben delineatosi nel volgere dagli anni ’60 agli anni ’70 (come risalta nella diagnosi di Pala, in “L’ultima crisi”, del 1982) – che non a caso è fuorviante, far risalire le  vicende culminanti nell’attacco odierno alla  Costituzione solo alla fine degli anni ’80 ed inizi anni ’90: in quanto ciò vale a prendere spunto dalla crisi sovietica per una liquidazione generale e complessiva del comunismo e del marxismo, con l’intento di  non dare evidenza al  revisionismo giuridico di cui approfitta l’attuale centro-destra, in quanto la sua origine risale già alla metà degli anni ’70, quando si è manifestato, nei termini più cruenti, lo scontro di classe già alimentato dal movimento operaio e dilatatosi con l’esplodere della “contestazione” dei movimenti muniti di una coscienza anticapitalistica ben più consapevole di quella interna ai movimenti “no-global” odierni.

E la datazione riferibile alle dinamiche conflittuali del caso italiano soccorre l’articolata ricostruzione del procedere in parallelo, negli ultimi trent’anni, del revisionismo storico e del revisionismo giuridico, in quanto, in prima battuta, si è operato per abbandonare la delegittimazione dei neo-fascisti ad opera di un antifascismo ormai privato di ogni funzione  militante (quando i soli aderenti all’Anpi sono stati delegati dal Pci a “santificare” il 25 aprile), salvo, in seconda battuta, profittando della sopravvenuta crisi del “socialismo reale”, passare, più direttamente, a purgare l’antifascismo dall’ascendente politico-culturale del partito comunista: sì da dar luogo ad una ricongiunzione mistificata tra revisionismo storico e revisionismo giuridico quando le ipotesi di stabilizzazione socio-economica e di preminenza dell’esecutivo sulle assemblee elettive – sulla scia delle provocazioni in senso autoritario ispirate dalla destra reazionaria e occulta – vengono assunte gradualmente da tutte le forze politiche del “pentapartito”, coinvolgendo negli anni 1985-88 lo stesso Pci e le forze politiche eredi del Pci trasferitesi nel Pds-DS, negli anni ’90.

Per rendersi meglio conto delle circostanze che hanno congiurato a favore di una progressiva sovrapposizione dei due  revisionismi, non va dimenticato che il significato del “pluralismo” (sociale, politico) si inscrive nell’ambito delle diverse impostazioni ideologiche che sono state alla base delle formazioni organizzative nella fase della Resistenza, con mutamenti che sono analiticamente descrivibili identificando nei loro presupposti teorici e nelle loro dinamiche politico-programmatiche le “correnti” che (alla fine coinvolgendo lo stesso Pci, partito tradizionalmente “monolitico” sino alla fine degli anni ’60),  grazie al sistema elettorale proporzionale, hanno intessuto la complessa e contraddittoria trama della fase successiva all’entrata in vigore della costituzione del 1948.

Sì che, mentre sopravvive qualche ricordo, Fini insiste sul “presidenzialismo” perché già nel 1943 il Mussolini della Rsi lanciò la proposta di passare dalla monarchia alla repubblica presidenziale, non molti rammentano che la scelta in sede di assemblea costituente per la repubblica presidenziale venne a sua volta prospettata dal Calamandrei per il partito d’azione, la cui “destra” si era premurata, in antitesi ai comunisti, a puntare a una visione di “razionalizzazione” dei poteri statali, tramite un esecutivo dotato di “autorità e stabilità” (per una ricostruzione dei termini della questione, vedasi De Luna, “Storia del partito d’azione”, 1982 pagg. 270-287).

Ed è seguendo le vicende del pluralismo – nel contrasto endemico che negli anni 1948-1978 ha caratterizzato i tre grandi partiti di massa già convergenti nel patto costituente in una strategia non “limitata al mero solidarismo”, ma estesa alla “socializzazione del potere” economico e politico – che si possono enucleare i punti dirimenti di un trentennale contrasto tra le variegate forze centriste e i comunisti, accompagnato dal ricorso sistematico delle forze moderate  agli artifici dell’ingegneria “istituzionale” mediante l’adozione, cioè, di espedienti canonizzati dall’ideologia giuridica, come quello che (ricorrendo ad una arbitraria e maccheronica “conventio ad excludendum”) è valsa a conseguire effetti propri dei sistemi “maggioritari” (con interventi abnormi condivisi dai vari Presidenti della Repubblica) dalla deformazione del sistema elettorale proporzionale: con l’obiettivo di impedire al secondo partito della Repubblica di entrare “a far parte”, nonché di essere legittimato “protagonista”, della formazione di maggioranze parlamentari necessarie a superare la crisi del “centrismo” e del centro-sinistra: il che era tanto più grave, quando la forza elettorale della Dc era divenuta inferiore al 40%, e ben poteva essere ricusata l’idea che essa, a priori e incondizionatamente, fosse assunta come asse motore del sistema politico-parlamentare italiano, sotto l’etichetta di “partito di maggioranza relativa” entrata nell’uso politico-culturale.

Il fatto, risultato decisivo, che sia pure di stretta misura (e appunto grazie all’estremo pluralismo provocato dalla resistenza alle inaccettabili pretese di “dominio” della “centralità” DC), non abbia potuto operare la famosa “legge-truffa” del 1953 volta a “formalizzare” le distorsioni in senso “maggioritario” del principio proporzionalistico, non toglie che con il concorso della maggioranza dei giuristi in Italia abbia operato quella che è stata chiamata “democrazia bloccata” e quindi “incompiuta”, con il concorso dei “politologi” venuti a consacrare le mistificazioni di una giurisprudenza ancorata alla nefasta teoria della “costituzione materiale”: per cui si è parlato di democrazia resa “difficile” da un “bipartitismo imperfetto”, raffigurato da Sartori (divenuto maestro di dottrina del “centro-sinistra” attuale) con l’immagine del “triciclo”, le cui “ruote estreme” erano identificate e nel Pci e nel Msi: essendo il centro comunque organicamente anticomunista.

La lezione che se ne deve trarre, è che in tutto il periodo che viene simbolicamente indicato come “prima repubblica”, la continuità formale della democrazia – come regime nel quale in base alla Costituzione si puntava non più genericamente a “garantire i diritti” (come si dice ignorandone deliberatamente la Prima Parte, con  l’introduzione nel 1993 del principio elettorale “maggioritario” e l’avvento del “bipolarismo” perseguito ciecamente da Ds e Pp) ma a “fondare nuovi diritti” sulla base della modifica degli assetti di potere sociale e politico secondo la strategia incentrata sull’art. 3, secondo comma, dei Principi Fondamentali – non è stata mai esente da insidie, prima palesi (nel periodo 1947-1960) e poi “occulti” (o “sommersi”), con tentativi nei quali è stata presente a sostegno dell’azione “extraistituzionale” quella rivendicazione di tipo teorico sollecitata da destra con l’obiettivo insistito delle “riforme istituzionali”.

Una volta sconfitta sul campo , prima la “legge truffa” e poi la formazione di un governo sostanzialmente “incostituzionale” come quello imperniato sul voto “formale” di fiducia Dc-Msi per il ben noto governo Tambroni (definito mistificatoriamente governo “amministrativo”), di fronte alla crescente capacità di lotta del movimento operaio e dei cittadini democratici divenuti parte di un “blocco storico” antitetico al blocco sociale della Dc e dei suoi alleati visibili e invisibili, le forze dominanti si sono rese conto dell’inevitabilità di ricorrere ad una strategia più subdola, come documentano combinatoriamente i fatti di tipo “golpista” e “terrorista” che hanno accidentato il periodo 1964-1981, in cui comunque la complessa manovra reazionaria non si è sottratta alla tradizione di ricorrere agli strumenti “tecnici” estraibili dal vecchio bagaglio della cultura giuridica.

Si è così passati, dagli espliciti richiami, al presidenzialismo del repubblicano Pacciardi, alla perorazione della “governabilità” da parte di giuristi della destra DC ispiratori di improvvisati convegni di “dottrina dello stato” a cavallo degli anni ’60-’70, e persino ai preoccupati e tendenziosi dibattiti sollecitati da un giurista accreditato come Mortati che alla Costituente aveva bensì fatto parte della “sinistra dossettiana”, ma sostenendo in contraddizione con l’ispirazione sociale di Dossetti (che invocava addirittura “il socialismo”) proposte limitatrici del ruolo del parlamento perciò rimaste estranee al modello di forma di governo entrato in vigore. Tutto ciò in preciso contrasto con la forza di pressione politico-sindacale giunta al suo massimo livello negli anni “68-69” (benché segnata da divisioni tra Pci e Cgil, e le formazioni extraparlamentari) e risultata pericolosa per gli assetti di potere del meccanismo capitalistico “pubblico-privato” posti in discussione in una prospettiva di coerente connessione tra le lotte sociali garantite dal dispiegarsi di un diritto di sciopero costituzionalmente privo di limiti e le lotte politiche trasferite in un parlamento divenuto “centrale” solo nella breve stagione degli anni ’70-75. Giungendosi così ad una recrudescenza della reazione divenuta sempre più attrezzata per il convergere di quelle forze interne-internazionali la cui alleanza era codificata nel Patto Atlantico, già nel 1949 con le clausole incostituzionali usate conseguentemente per obiettivi inconfessabili, secondo una cadenza analizzata solo ”ex post”, quando il revisionismo storico e il revisionismo giuridico hanno finito per convergere, operando allo scoperto, venuto meno, con la crisi del “socialismo reale”, lo status internazionale imperniato sulla “guerra fredda” ideologico-militare.

(prima parte)                                                                              continua

 

Post-democrazia Anni 80-90-2000ultima modifica: 2011-12-01T08:00:00+01:00da iskra2010
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