Proporzionale-Integrale.it Difendiamo e rilanciamo insieme la Costituzione antifascista del 1948!

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Salvatore D’Albergo * 

La “bozza Violante” come cavallo di Troia

IL VERO OBIETTIVO DELLA “BOZZA VIOLANTE” È L’ALTERAZIONE DELLA FORMA DI  GOVERNO PARLAMENTARE SCELTA DALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE

Complesse sono le ragioni per cui le forze contrarie all’instaurazione  della democrazia sociale dopo la sconfitta del fascismo hanno in vario modo,  trovando via via nuovi alleati, tentato di delegittimare la Costituzione  italiana, rendendo perciò tanto più acuto lo scontro di classe in cui si è  innestato il processo di contrastata attuazione delle riforme sociali e  istituzionali sollecitate negli anni 1948-78, per l’iniziativa particolarmente  incalzante dei comunisti nel partito e nel sindacato.

DAL MASSIMALISMO AL MINIMALISMO ANTICOSTITUZIONALE

Nella possibile confusione architettata con la mistificatoria separazione  tra “prima” e “seconda” parte della Costituzione, a loro volta scisse dai  Principi fondamentali, non deve sfuggire il motivo per cui i gruppi di potere –  invece di demonizzare le norme costituzionali sostanziali volte al controllo  sociale e politico della proprietà e dell’impresa – abbiano concentrato i loro  sforzi politici e culturali sugli aspetti della vita organizzata, che sono per  loro natura meno immediati nell’esperienza delle masse popolari: come appunto  sono le questioni “istituzionali”, riferite tradizionalmente alla forma di  governo, che è l’epicentro dell’organizzazione del potere costruita storicamente  a presidio del sistema capitalistico.   Il richiamo di tale apparente ovvietà si  rende oggi necessario per spiegare come mai da due anni viene invocata con  intermittenza una fantomatica Bozza Violante, opponendola a circa un trentennio  di sofisticate elaborazioni affidate a tre commissioni bicamerali e travasate in  due leggi di revisione costituzionale (2001 e 2005), la seconda delle quali è  stata bocciata dal voto referendario del 2006. Come mai, dopo una lunga fase di  “massimalismo” sfrenato, teso a stravolgere l’intera seconda parte della  Costituzione (che ha coinvolto quasi tutti i costituzionalisti, in un’orgia  revisionistica contrastante con la neutralità, se non passività, degli anni  della lotta per la democratizzazione), si è passati ad una fase di torbido e  torpido “minimalismo”, imperniata sul ruolo più soft affidato ad un misterioso  documento con cui, dal 2007, si tenta di riaprire un corso revisionista che il  voto referendario (stando alle concezioni dei referendaristi a oltranza)  dovrebbe ormai precludere? Questa volta però, nella speranza di contenere il  ritorno dei “massimalisti”, si delimita artatamente il campo di intervento, con  il singolare patrocinio del presidente della repubblica. Si tratta di una  manovra architettata a latere della rissosa conflittualità tipica del nostro  insano bipolarismo, in cui dominante è il ruolo di chi (compreso Violante, oggi  responsabile dei problemi istituzionali nel PD) prosegue ciecamente un percorso  avviato quando Berlusconi era ancora ai margini della politica ufficiale  (bastandogli la condivisione del piano di Gelli) e i presidenzialisti di AN  erano nei noti limiti rappresentativi del MSI. Si sta infatti ripartendo alla  chetichella dagli orientamenti emersi all’epoca della prima bicamerale del 1983  presieduta dal “costituzionalista” liberale Bozzi, stavolta lasciando in  disparte la complessità della seconda parte della Costituzione, se ed in quanto,  tuttavia, Berlusconi vorrà contemperare, con tale tattico minimalismo, quel  massimalismo che peraltro non avrebbe potuto prendere mai consistenza, se non  gli si fosse stata aperta la strada stracciando il metodo elettorale  proporzionale puro, a favore di maggioritari puri o spuri (le leggi truffa,  epiteto ormai ipocritamente dimenticato).

LA BOZZA VIOLANTE

Se si valuta nel merito la Bozza Violante [1] e si tiene conto  dell’inevitabilità conferita al cosiddetto completamento della ristrutturazione  “federalista” (invocata dalla Lega e imposta dal centro-sinistra con  l’improvvida legge di revisione del 2001) per dar vita ora al Senato federale,  si deve denunciare che il vero obiettivo annidato in poche righe interne ad una  trentina di norme, è quello concernente l’alterazione della forma di governo  parlamentare scelta dall’Assemblea costituente. Tale alterazione ha dato sin qui  la stura ad un’ostinata sciorinatura di modelli adottati in altri ordinamenti,  nessuno dei quali rapportabile a quello entrato in vigore in Italia con la nuova  costituzione, a causa dell’originalità del rapporto che solo il nostro modello  di democrazia sociale, in quanto antagonista di quello liberaldemocratico,  presenta tra forma di Stato – volta alla trasformazione della società – e forma  di governo , volta a fare della sovranità popolare la base fondativa del pluralismo sociale e politico attivato dal protagonismo delle organizzazioni di  massa e culminante in un parlamento non più sovrano perché antipopolare, ma  tramite coerente della domanda sociale. Tale minimalismo non va sottovalutato, e  non solo perché sono già due anni che Berlusconi traccheggia, facendo incombere  il massimalismo cui non ha per nulla rinunciato, ma anche e soprattutto perché  la Bozza Violante, alla luce dei suoi contenuti, offre l’occasione per una  critica che dal 1983 in poi non è riuscita a trovare udienza neanche nei settori  della “sinistra”, a causa della pressoché generale acquiescenza al falso  presupposto che la nostra Costituzione attendeva di essere “ammodernata”,  “aggiornata”, “adeguata” a supposte “modifiche della realtà” genericamente  intese, o – ciò che però è indicativo dell’assoluta inaccettabilità delle  premesse – di essere assimilata in modo più congruo al funzionamento delle forme  di governo degli altri più importanti sistemi europei.

PREMINENZA ALLA FORMA DI GOVERNO

Ad un’attenta disamina di tutto il materiale elaborato in un trentennio e  che nel passaggio tra le varie bicamerali si è dilatato coinvolgendo la  disciplina dei tre poteri (esecutivo, legislativo, giurisdizionale), non si può  non essere colpiti dal fatto che nella Bozza Violante è data preminenza proprio  alla forma di governo: agli immemori va rammentato che in essa il tipo di  soluzione prospettata trova puntuale precedente all’interno del confronto di  posizioni dei partiti che nella Commissione Bozzi si fecero ancora residualmente  valere a latere di “giuristi” destinati poco per volta a prendere il sopravvento  e dilagare nelle commissioni De Mita/Jotti e D’Alema, nonché nell’elaborazione  delle leggi di revisione del centro-sinistra e del centro-destra. Nella Bozza si  coglie una chiara corrispondenza – per quanto attiene alla forma di governo e  quindi ai rapporti tra esecutivo e parlamento – con le scelte prospettate in  seno alla commissione Bozzi da una maggioranza ispirantesi al principio del  governo di legislatura: da un lato istituisce un rapporto diretto e separato del  parlamento con il solo presidente del consiglio per un voto di fiducia  “personalizzato” ed estraniante la struttura del governo; dall’altro, esalta la  supremazia del presidente sui ministri, recuperando quel potere di proposta (al  capo dello Stato) della loro revoca (oltre che della nomina) risalente in Italia  alla fase storica liberale e fascista.

SI RESTRINGE L’AUTONOMIA DELLA CAMERA

Non paga di ciò la Bozza va oltre: a proposito del potere di revoca della  fiducia, essa aggrava i limiti di autonomia dei parlamentari interessati a  sottoporre al voto la mozione di sfiducia, sia elevando da 1/10 a 1/3 il numero  dei firmatari, sia restringendo l’autonomia della Camera con il vincolo della  maggioranza assoluta dei componenti ai fini dell’approvazione della sfiducia  stessa. Per giunta, a tale gabbia di “razionalizzazione” pro esecutivo è stato  sovrapposto un inedito potere del capo dello Stato di “valutare i risultati  delle elezioni” prima di nominare il presidente del consiglio: inserimento tanto  più singolare rispetto alla variabilità dei tipi di metodo elettorale e tenuto  conto che il voto di fiducia riguarda non il governo, ma il presidente del  consiglio.

POTERI CONCENTRATI IN UN VERTICE

Sono questi i frutti di un artificioso lavorio, volto con schemi “giuridici” a occultare la natura dei disegni “politici” di sovrapposizione al  parlamento di poteri concentrati in un vertice, nel quale in termini anodini verrebbe coinvolto anche il capo dello Stato che, oltre ai poteri di garanzia e  quindi neutri, si vedrebbe accreditato un infondato potere di interferenza nei  rapporti tra governo e parlamento. Si evoca così l’immagine di un governo  gravitante nell’orbita di una sorta di capo dell’esecutivo, che nella combine tra statuto albertino e legge fascista sulle attribuzioni del capo del governo  (1925) implicava l’oscuramento – allora totale – del ruolo del parlamento. In  tale contesto risalta maggiormente quanta mistificazione abbia accompagnato le  strida di quella parte di costituzionalisti che – giustificata la  “modernizzazione” razionalizzatrice articolabile nei modelli del  presidenzialismo americano, del semi-presidenzialismo alla francese, del premierato all’inglese, e del cancellierato alla tedesca – convergono con quanti  si sono premurati di aggiungere che il NO alla riforma berlusconiana non implica  “uno scontro di civiltà”, ma solo il diniego ad una riforma “sgangherata”: gli  uni e gli altri sono accomunati dalla fede nella “ingegneria istituzionale”, che  occulta l’omogeneità – funzionale agli interessi della classe dominante  nell’occidente – delle sfrenate “fantasie” sui modelli di rapporti  politico-istituzionali. Ecco perché va messa a nudo la confusione che proposte  di tipo minimalista – lanciate nel 1983 e riproposte con la Bozza tanto  enfatizzata proprio da parte del centro-sinistra – possono ora provocare in un  elettorato che aveva saputo rilegittimare con il no referendario il modello  costituzionale vigente. Non è un caso che rispetto a tale bozza il centrodestra  si mantenga freddo e distaccato, interessato com’è a soluzioni modellistiche più  corrive ai suoi conclamati interessi di classe, al di là del “dialogo” e della  “condivisione” di facciata sotto i falsi miti dell’”ideologia giuridica”.

MODELLO COSTITUZIONALE BRITANNICO E CONSERVATORISMO SOCIALE

È diventato fin troppo facile oggi dimenticare, anche “a sinistra”, che la  fertilità delle manipolazioni delle forme di governo denominate “parlamentari”  si alimenta nelle pieghe del contrasto fra teorie “politiche” e teorie  “giuridiche” del potere, del diritto e dello Stato. Ciò ha consentito ai  costituzionalisti, affiliati ad un comune dogmatismo, di sovrapporre alle  differenze storico-politiche delle forme di governo, i principi astratti di una  “razionalizzazione”, assunta come espediente nelle due fasi di passaggio epocale  della prima e poi della seconda guerra mondiale, per contenere l’espandersi più  compiuto e coerente dei rapporti di classe, nel rapporto tra vita collettiva e  organizzazione dello Stato. Tale “razionalizzazione” è stata oltretutto  concentrata a carico del ruolo del parlamento per delegittimare, all’ombra del  cosiddetto “Stato di diritto”, l’autonomia reale dei soggetti del pluralismo  sociale: il disegno (sovente deluso, perché la storia è incoercibile) era quello  di parametrare i parlamenti del continente europeo al funzionamento di quello  britannico, denominato di gabinetto o semplicemente del primo ministro, e invano  imitato con varianti di cui la più spiccata è quella del cancellierato, tanto  caro ai socialdemocratici di varia dislocazione nazionale. Si tratta infatti di  forzature sempre stentate, non necessarie nel sistema consuetudinario inglese  (perciò privo di una costituzione scritta, nonché rigida), dato che il  conservatorismo so – ciale di quel sistema (tradizionalista sino al punto di  sottostare tuttora alla fedeltà monarchica) ne garantisce automaticamente il  conservatorismo politico-istituzionale in forza del principio maggioritario, e  del conseguente bipartitismo. Solo nel continente europeo si è dovuto  “regolamentare” il rapporto fiduciario, cercando con la disciplina della mozione  di sfiducia di sottrarre il governo agli effetti “destabilizzanti” della libera  dialettica tra le forze politiche, sotto gli impulsi dei partiti di massa tra  cui spiccatamente il partito comunista: ciò che spiega come mai nel sistema di  Bonn sia stata introdotta una ancor più sofisticata sfiducia costruttiva, per  supportare un cancellierato comunque inidoneo a duplicare coerentemente il  premierato inglese per le ineludibili ragioni storico-sociali, più forti della  presunta “razionalizzazione”.

CENTRALITA’ DEL PARLAMENTO NELLA COSTITUZIONE ITALIANA

Non si spenderanno perciò sufficienti parole, al punto in cui siamo, per  puntualizzare quel che persino in ambienti di “sinistra” si tende a ignorare o  svalutare, e cioè che in Occidente solo la forma di governo italiana ha  innovato, introducendo la centralità del parlamento (demonizzata subito come  parlamentarismo assoluto dalla destra più arcigna). Il continuum  governo-parlamento è volto a rovesciare il principio (asseverato specialmente  dai giuristi) secondo cui è l’esecutivo l’organo governante, portatore dominante  dell’indirizzo politico, che, viceversa, nel passaggio dallo Stato autoritario  (e tanto più totalitario) allo Stato democratico spetta, in nome della sovranità  popolare, al parlamento [2]. Mal orientati dai costituzionalisti e dai  politologi, non si vuol proprio ammettere che la scelta del modello italiano è  riuscita, unica in Europa, a sfuggire ai tentacoli della “razionalizzazione”  come interfaccia, propria dell’ideologia giuridica, di una concezione della  forma di governo subalterna all’ideologia del capitalismo (non a caso rinverdita  dal documento della commissione Trilateral diffuso agli inizi degli anni ‘70  contro la complessità sociale e per la riduzione della democrazia). Sicché la  centralità del parlamento – contro ogni artificioso tentativo (la cosiddetta  conventio ad excludendum dal governo dei comunisti) – ha avuto i suoi fasti  negli anni 1970- 1978, proprio per la capacità che le lotte sociali hanno avuto  di proiettarsi sul terreno parlamentare, al punto che alcune leggi di riforma  democratica sono state elaborate e votate prescindendo dall’iniziativa  legislativa governativa, con scorno della pretesa della DC e dei suoi alleati di  imporre come determinante il potere (facoltativo) di iniziativa del  governo.

LA BOZZA CONSOLIDA IL PRIMATO DELL’ESECUTIVO

A completare il discorso sul revisionismo minimalista (mentre quello  massimalista, sconfitto col referendum, è sempre in agguato in nome del  presidenzialismo nelle sue varie confezioni), la questione del governo  parlamentare è posta su un piano inclinato anche a proposito dei rapporti  governo-parlamento nel processo di formazione delle leggi, in quanto con la  suddetta Bozza si mira a consolidare il primato dell’esecutivo, prevedendo che  “il Governo può chiedere che un disegno di legge sia iscritto con priorità  all’o.d.g. di ciascuna Camera e sia votato entro una determinata data”. Come si  vede, la “governabilità” non è mai paga e si invocano esigenze di certezza delle  decisioni, razionalizzazione delle procedure e snellimenti come nel sistema inglese con la mozione ghigliottina e la programmotion, e come nel  semipresidenzialismo francese ove l’o.d.g. delle assemblee comporta in via  prioritaria e nell’ordine stabilito dal governo la discussione dei disegni di  legge presentati dal governo stesso: il che adombra nella costituzione gollista  quel che nel contesto del primo avvio del fascismo si stabilì, nel senso che  “nessun oggetto può essere messo all’o.d.g. di una delle due Camere senza  l’adesione del capo del governo” (1925). Non si comprende come in tale contesto  nel 2007, proprio a ridosso della sconfitta referendaria del progetto  Berlusconi, anche esponenti di “sinistra”, a conforto delle iniziative  sollecitate dal centro-sinistra e dal centro-destra per riprendere il “dialogo”  sulle riforme istituzionali, abbiano avallato la riapertura minimalista,  addirittura evocando la proposta della sfiducia costruttiva ( per ora  accantonata dai fans del revisionismo per agevolare il pactum sceleris);  istituto quanto mai anomalo, comunque lo si osservi, perché, pur di rendere  stabile il governo in nome del Kanzlerprinzip, si fissa il principio (che  contrasta con la dialettica, tipica della lotta politica) secondo cui solo se si  raggiunge preventivamente la maggioranza assoluta dei parlamentari può ottenersi  la revoca del cancelliere.

FINE DEL BICAMERALISMO PARITARIO

A completare il disegno del progressivo smottamento incostituzionale [3] la  Bozza ha investito, oltre che la funzione del parlamento, anche la sua  struttura, approfittando della ormai irrecuperabile subalternità del PD alla  Lega circa un federalismo che – ben diversamente dagli slogan correnti sulla  maggiore vicinanza degli stati membri (o regioni) ai cittadini – si traduce in  una forma di centralizzazione dei poteri dello Stato più conforme agli interessi  centrali del mercato e delle imprese. E infatti il numero maggiore di norme –  che fanno da corona a quelle sul primato dell’esecutivo – concernono la  spaccatura che si punta a instaurare tra la Camera e il nuovo Senato “federale”,  nel duplice intento: a) di attuare la demagogica riduzione del numero di  deputati e senatori [4]; b) di cancellare quel bicameralismo paritario con cui  l’acume di Togliatti aveva ovviato alla pregiudiziale contro il monocameralismo  (innovazione proposta dai comunisti in nome della indivisibilità della  sovranità popolare), con il risultato che le due camere in Italia hanno operato  senza le contraddizioni tipiche del tradizionale bicameralismo diseguale  invocato dai conservatori vecchi e nuovi. Il “bicameralismo diseguale”  reintroduce nei meccanismi operativi della rappresentanza politica uno smaccato  contrasto con l’eguaglianza sociale, ormai solo demagogicamente sbandierata e di  fatto vanificata da quando si è avviato il bipolarismo di centro-destra e  centrosinistra, entrambi ideologicamente allineati sul primato del mercato. E  infatti, da destra, ora non si esita a rivelare l’intento reale perseguito,  sulla scia dell’improvvido “revisionismo” del centrosinistra: scardinare i  principi di democrazia sociale della “repubblica fondata sul lavoro”, togliendo  al movimento operaio le condizioni di potere politico-istituzionale atte a  recepire la spinta delle masse, tanto che i costituzionalisti à la page parlano  ora di una anodina “democrazia costituzionale” di stampo neo liberal-liberista.  In tale ottica va posta la macchinosità con cui si punta a sostituire le  cosiddette “lungaggini” del bicameralismo paritario, spaccando il parlamento – e  quindi la rappresentanza popolare – con una estraneazione del nuovo Senato dal  circuito dei rapporti “fiduciari” tra esecutivo e parlamento (riservati alla  Camera) e con una burocratizzazione strutturale del Senato, formato non da  rappresentanti eletti (al pari dei deputati), ma da esponenti di secondo grado  delle regioni e delle autonomie locali, destinati a soddisfare le pretese dei  leghisti di trasferire in modo meccanico il ruolo dei loro esponenti sul  territorio nelle stanze della seconda Camera.

TRIDIMENSIONAMENTO DEL POTERE LEGISLATIVO

Ma quel che è più grave, a proposito della semplificazione e della  velocizzazione del procedimento legislativo patrocinato contro il bicameralismo  eguale, è che i revisionisti predispongono il tridimensionamento del potere  legislativo scindendo il potere di legiferare: a) in materie di competenza  paritaria (reinventata, quindi, a disprezzo di ogni coerenza); b) in competenze  “a Camera dei deputati prevalente”; c) in materie “ad apporto del Senato  parziale”, perché condizionabile”. Si tratta di una soluzione monstre che  nasconde l’influenza leghista su un neocentralismo a mala pena mascherato  dall’automatismo dell’immissione nel Senato dei suoi esponenti locali. Il che è  tanto più inaccettabile non solo perché costituisce l’elemento di traino di un  federalismo accolto acriticamente dal PD e passivamente valutato da una parte  della sinistra specie al Nord, ma soprattutto perché ostacola la valutazione  consapevole del contenuto strategico che il minimalismo dominante in questi  giorni persegue, per determinare studiatamente effetti non eclatanti, ma proprio  perciò equivalenti a quelli che stanno a cuore al centro-destra, in termini  schematicamente netti e irrefrenabilmente più antidemocratici. Tale operazione è  imputabile alla sottovalutazione – in materia di decentramento e di federalismo  – del rapporto tra questione sociale e questione istituzionale, dimenticando che  il federalismo istituzionale (come dimostra il caso USA) è la soluzione  “moderna” della connessione simbiotica tra poteri economico- finanziari e poteri  politico-istituzionali. Il che comporta l’invarianza tra lo Stato unitario e lo  Stato federale, a implicito detrimento della concezione della federatività  sociale, proiettabile su una strategia attinente alle condizioni di  socializzazione del potere; ad essa si oppone la concezione di un federalismo  volto a imporre sistemi reticolari di nuove forme di concentrazione di potere,  inaridendo il ruolo della autonomia sociale e dei poteri anticentralistici  funzionali agli interessi delle forze sociali.

IL METODO BIPARTISAN PER SOVVERTIRE LA COSTITUZIONE

Accompagnata da una “lettera ai giovani sulla Costituzione” (2006) con cui  ha perorato il “grande scopo” di “liberarsi dall’antico idolo del parlamento  legislatore onnipotente”, l’iniziativa di Violante è stata ora raccolta – sotto  la pressione (divenuta asfissiante) del capo dello Stato, memore del ruolo  svolto nel 1983 per chiudere la lunga fase di “patriottismo costituzionale” del  PCI – dai gruppi senatoriali del centro- destra e del centro-sinistra. Con una  metodologia ipocrita e mistificatoria senza precedenti, ciascun gruppo ha votato  una mozione (sottoscritta da esponenti propri) concordando l’astensione dalla  votazione da parte del gruppo avverso, sostenitore però di una mozione  dell’identico tenore dell’altra. In nome della “spirito di leale  collaborazione”, le due mozioni concordano nell’aderire ai punti qualificanti  della “bozza Violante” (riduzione del numero dei parlamentari, rafforzamento dei  poteri e delle funzioni del governo e del parlamento, rivisitazione del  bicameralismo perfetto) con l’aggiunta di una “riforma delle norme di rango  costituzionale relative all’ordinamento giurisdizionale”. Contro una prassi,  intervenuta nella stessa “sinistra”, occorre rilanciare un dibattito di massa  sulle manipolazioni – nell’interesse di “cupole” sovranazionali o nazionali dei  vertici economici e politici del sistema di potere capitalistico – sia delle  leggi elettorali, sia delle norme costituzionali sulle forme di governo  parlamentare che mirano a dare effettiva libertà agli eletti dal popolo di  recepire la domanda sociale di democrazia sostanziale, onde evitare che sulla  cultura di massa faccia sempre premio l’ingegneria istituzionale  “professori”.

Note

1 È la proposta di legge costituzionale approvata il 17.10.2007 in  commissione Affari costituzionali della XV legislatura (governo Prodi),  presieduta da Luciano Violante, con l’astensione del centro-destra e la sola  opposizione del Pdci.

2 Appare pertanto inconcepibile l’attenzione rivolta da quei giuristi (che  da 60 anni ne recitano il testo) ad un o.d.g., votato in Commissione ma non  nell’Assemblea costituente (di cui si tace al contrario che abbia votato un  o.d.g. in favore del metodo elettorale proporzionale) intestato al prof.  Perassi, auspicante l’adozione – poi disattesa nel testo costituzionale – di  “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità  dell’azione di governo ed evitare le degenerazioni del parlamentarismo”.

3 È sintomatico che coloro che lodano la Corte Costituzionale per aver  sostenuto che vi sono “principi immodificabili”, escludano da questi il  pluralismo e la rappresentatività democratica dell’ordinamento.

4 È esemplarmente efficace la denuncia di Elias Vacca del Pdci che in tal  modo si consegue una “elevazione della soglia di sbarramento di fatto” a carico  dei partiti minori (cfr. La rinascita della sinistra, 11.1.2010), in aggiunta  allo sbarramento alla base del 4 o 5% (accarezzato suicidamente dal PRC). 

* da L’Ernesto 1/1/2010

Proporzionale-Integrale.it Difendiamo e rilanciamo insieme la Costituzione antifascista del 1948!ultima modifica: 2011-12-17T08:30:00+01:00da iskra2010
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