Riflessioni per un programma politico-economico dei comunisti nel XXI secolo – CRISI ECONOMICA E TRASFORMAZIONE SOCIALE

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di G. Bruno  (24/01/2012)

Il processo di transizione dal capitalismo al socialismo nella prospettiva di una società comunista

Scenari di attualità politica

La crisi attuale sta scuotendo alle radici il sistema democratico borghese (oltre a quello economico) e le relazioni sociali tra le classi scaturito nell’Occidente capitalistico nella seconda metà del Novecento: il compromesso socialdemocratico che ha vissuto nelle società europee per decenni è saltato a partire dagli anni ’80, smontato per progressivi passaggi di dismissione dei ruoli dello Stato (non dello Stato stesso) che da stimolatore economico-produttivo, garante sociale, redistributore fiscale – tramite le aziende a capitale pubblico, i diritti e le garanzie conquistate dai lavoratori e sancite costituzionalmente, le ricchezze trasferite in servizi sociali e pensioni – è tornato ad essere mero strumento di repressione delle rivendicazioni popolari e puro attrezzo della dittatura ideologico-sistemica del mercato, imposta dalle borghesie negli ultimi trent’anni.

Le soluzioni adottate in questi anni nella zona di Eurolandia hanno portato sull’orlo del baratro molti paesi, evidenziando la natura distruttiva delle scelte liberiste, recessive ed economicamente inconcludenti, fondate sulle privatizzazioni dei servizi essenziali con la restrizione del deficit degli stati, cioè della spesa pubblica, in chiave di risparmio del debito cosiddetto sovrano (cioè pubblico).

Le vittime cadute nella rete del rigore mortuario imposto dalla Germania all’area economico-finanziaria dell’euro sono state innanzitutto l’Islanda, che si è sfilata dall’euro dichiarando fallimento (default) e ricostruendo un tessuto economico a partire da una nuova Costituzione.

La seconda vittima, ormai tenuta in vita artificialmente da prestiti palesemente insolvibili, è la Grecia, ormai in caduta libera e senza alcuna possibilità di risollevarsi se non svendendo ogni struttura e proprietà pubblica e consegnando le chiavi dello stato direttamente nelle mani della potenza euro dominante, la Germania.

Vi sono poi gli altri paesi che assieme alla Grecia rientrano tra i PIGS (Portogallo, Irlanda, Spagna) sull’orlo della bancarotta: a questi si è ha voluto accomunare anche l’Italia, che rischia dopo il declassamento anche il vero e proprio fallimento. Il passaggio di testimone da Berlusconi a Monti, sotto l’attenta regia di Napolitano, ha sancito non certo l’immediato scampato pericolo del default dell’Italia, ma la garanzia per i poteri forti dell’Eurozona di una figura organica e integrata come Monti per condurre l’Italia a superare definitivamente i vincoli democratico-costituzionali che hanno garantito per cinquant’anni il compromesso sociale e politico (certamente ben lontano dai tratti di socialismo o addirittura di comunismo di cui si è riempita la bocca la propaganda populista e demagogica berlusconiana), fondato su un interclassismo assistenzialistico da cattolicesimo sociale più che su uno statalismo riformista keynesiano o socialdemocratico.

È con questa finalità strategica di classe che il programma del Governo Monti assume tre obiettivi di fase attorno a cui si definiscono le tre direttrici di intervento: la riduzione delle spese sociali come dimagrimento della spesa pubblica; la rottura della relazioni tra categorie in nome dell’ideologia di mercato; l’annullamento dei compromessi a garanzia dei diritti minimi dei lavoratori come strumento di rottura della solidarietà di classe (che mette in discussione perfino gli elementi di civiltà di una concezione liberaldemocratica, a difesa della dignità dei lavoratori intesi come individui). Per sostenere questo programma di smantellamento democratico-costituzionale e ripristinare un orizzonte iperliberista il Governo Monti ha messo in piedi una macchina ideologica che colpisce lavoratori e categorie sociali indicati come “caste protette”, responsabili della mancata crescita dell’Italia: ovviamente gli operai, ma neanche i tassisti, sono responsabili di questa crisi economica mondiale, né delle difficoltà italiane. Alle parole d’ordine anticomuniste di Berlusconi si è sostituita la più raffinata colpevolizzazione di settori e categorie additate come i nuovi untori: una propaganda altrettanto ipocrita e meschina.

Caratteri sistemici della crisi economica

Il dibattito, non solo teorico ma eminentemente politico, che si va sviluppando ormai da vari mesi sulla natura e sulla soluzione “da sinistra” della crisi, vede molte e distinte interpretazioni, con un tratto comune che è quello legato alla responsabilità della speculazione finanziaria che ha gonfiato il debito in maniera esponenziale. Con l’obiettivo di aumentare «i propri profitti e per quelli degli azionisti, le banche e le società di carte di credito contano sul “servizio” continuato del debito invece che sul pronto rimborso dello stesso»1: la permanenza del debito anche attraverso la finanziarizzazione dell’economia garantisce maggiori profitti rispetto a quelli che, nella crisi da sovrapproduzione di merci ormai trentennale, può garantire l’economia produttiva. È la caratteristica fondamentale che viene riconosciuta ormai universalmente, anche se ancora l’interpretazione degli economisti che difendono il sistema capitalistico non va al di là di una visione di scontro tra “economia reale ed economia finanziaria”2

Un’analisi più attenta è quella riportata sul Le Monde Diplomatique in cui Wolfgang Streeck sostiene che il “capitalismo democratico” nato nel dopoguerra ha alimentato una spesa pubblica per mantenere la pace sociale almeno fin quando «la lotta tra le esigenze dei mercati e quelle della società» provocava la necessità per gli Stati di indebitarsi per evitare lo scontro sociale3. Streeck riconosce che al debito pubblico in aumento si aggiunge il debito privato, che emerge per effetto delle liberalizzazioni e dell’investimento che i privati – tra cui i singoli risparmiatori – effettuano immettendo nella circolazione finanziaria risorse economiche e indebitandosi anche per il futuro. La risposta che emerge resta però sempre all’interno di una visione sistemica di tipo capitalistico, e tralascia un fattore fondamentale che invece individua Domenico Moro quando afferma che «l’esportazione di capitale e lo spostamento verso la rendita monopolistica … provoca la progressiva riduzione dell’accumulazione di capitale produttivo» e questo determina che «le imprese si arricchiscono grazie agli alti profitti, i lavoratori e l’economia del Paese nel suo complesso regrediscono e si impoveriscono». Occorre cioè guardare più in profondità alla crisi, scaturita dalla finanziarizzazione e dalla speculazione, che ha la sua origine nel «tentativo di superare la caduta generale del saggio di profitto, ripresentatasi alla metà degli anni ’70, (che) ha impresso un impulso fortissimo alla transnazionalizzazione delle imprese, che ha però prodotto una contraddizione tra capitale e Stato-nazione»4.

Le soluzioni ad una crisi sistemica di tale profondità sono dunque ben diverse e di ben altra natura rispetto a quelle liberaldemocratiche del PD, ma anche di quelle a carattere neokeynesiano che propone la sinistra radicale come il PRC o la FdS.

Allora vediamo quali possono essere le proposte realmente alternative all’attuale crisi economico-sociale che qualcuno definisce “di civiltà”.

Nell’editoriale pubblicato su Liberazione sabato 24 dicembre 2011, Giorgio Cremaschi avanza una proposta per una soluzione politica alla crisi economica devastante che attanaglia la società su scala mondiale. L’articolo si inserisce nel dibattito in atto nella sinistra di classe in merito alla natura della crisi e soprattutto per quanto riguarda le possibili vie di uscita che non penalizzino ulteriormente le masse popolari: merita perciò una riflessione più articolata e approfondimenti.

Il tema che si affronta è fondamentale rispetto alla crisi economico-finanziaria dai caratteri socialmente drammatici per le ricadute generali di impoverimento e disoccupazione che provoca; la questione è inoltre dirimente nella prospettiva di individuare soluzioni diverse rispetto alle politiche sostanzialmente conservatrici (quando non esplicitamente reazionarie) a carattere (neo)liberista degli ultimi trent’anni che si sono dimostrate disastrose in quanto economicamente recessive e socialmente antipopolari. Analizzando la “soluzione” del nuovo prestito di 500 mld di euro alle banche (116 solo alle italiane), Cremaschi individua lo squilibrio tra l’interesse che pagheranno le banche per la restituzione del suddetto prestito (1%) e quanto paga lo Stato italiano sull’acquisto dei propri titoli BTP (7%): il calcolo è presto fatto, le banche guadagneranno il 6%, e grandi investitori come aziende o speculatori avranno rendite parassitarie, tassate minimamente, che aggraveranno il debito pubblico. Il quadro che si tratteggia è quello di un’Europa in cui dominano tre poteri forti: la finanza internazionale, la tecnocrazia liberista (di cui, ricordiamo, è organica parte integrante lo stesso Monti), le destre al governo, mentre semplifica in due aspetti le soluzioni prospettate dagli economisti antiliberisti: a) uscire dall’euro, moneta che strangola la ripresa economica; b) non pagare più il debito, almeno alla finanza internazionale.

Cremaschi sostiene giustamente che il problema sia oggi quello di “rilanciare l’economia reale”, e indica la strada degli investimenti (pubblici) nei settori dei “beni comuni”, “servizi pubblici”, nonché nell’aumento di salari e redditi trasferendo ricchezza dalla speculazione finanziaria e dai grandi patrimoni ai cittadini in difficoltà. Per fare tutto questo è necessaria la nazionalizzazione delle banche.

Ritengo che questa proposta sia in sostanza politicamente corretta, anzi indispensabile per affrontare la crisi da una prospettiva che non riproponga nuovamente politiche di privatizzazioni e deregolamentazione del mercato, che sono causa della crisi e inevitabilmente recessive, ed eviti al contempo anche impotenti (allo stato attuale) soluzioni neo-keynesiane, in cui uno Stato inserito nel sistema capitalistico, anche se logorato e sull’orlo della bancarotta, dovrebbe investire risorse che sono state (e continuano ad essere) trasferite altrove tramite privatizzazioni, cartolarizzazioni e pagamenti degli interessi agli istituti bancari e finanziari (che oltretutto non prestano denaro alle attività produttive, approfondendo ulteriormente la crisi di solvibilità e generando recessione) senza modificare il meccanismo di produzione e distribuzione della ricchezza. La nazionalizzazione delle banche è dunque una questione seria per la sinistra di classe, antiliberista e anticapitalista del nostro Paese e non solo, un’idea forte su cui costruire un programma politico e un’alleanza sociale che affronti il problema della trasformazione del sistema senza arenarsi nuovamente nelle secche elettoralistiche.

Occorre dunque affrontare alcuni punti e discutere approfonditamente aspetti ineludibili per formulare una proposta credibile, inserita coerentemente e organicamente in un programma politico.

Le ferite sociali della crisi economica

La crisi, che da quattro anni (se vogliamo rimanere solamente all’analisi dell’ultima fase del fenomeno ben più complesso, ampio e profondo) scuote il sistema capitalistico nella sua forma liberista, sta provocando danni che ricadono innanzitutto sui settori sociali subalterni dei lavoratori, pensionati, precari, migranti, insomma sulle miriadi di tradizionali e nuove figure del proletariato contemporaneo: la novità rilevante in questa disastrosa fase economica (ben più lunga, complessa e profonda di una congiuntura) è che ad essere colpita duramente è anche la “mitica” classe media (o ceto medio nella fenomenologia della descrizione sociologica), aggredita dal processo di depauperamento (che bisognerebbe tornare a chiamare per quel che è realmente, cioè una vera e propria proletarizzazione) provocato dalla crisi economico-finanziaria.

Questo fenomeno (che smentisce clamorosamente l’idea che nella seconda metà del Novecento, e specialmente dall’89, si sarebbe conclusa la lotta di classe e si sarebbe raggiunto un livellamento sociale medio) ha inoltre messo a nudo un altro aspetto della drammatizzazione in atto, svelando un meccanismo essenziale del sistema capitalistico. Spesso infatti si dimentica come, contestualmente, sia in atto un gigantesco processo di concentrazione di capitali, segnato dall’immenso trasferimento di denaro e risorse dalle imprese produttive in crisi alle banche e alle agenzie della speculazione finanziaria: uno scontro brutale da cui derivano il fallimento e la chiusura di aziende e fabbriche, le cui immediate conseguenze sono disoccupazione, disperazione e miseria sociale, ma che non risparmia neppure la stessa borghesia capitalistica, attraversata da un feroce e convulso scontro interno per il potere e la sopravvivenza.

Dall’imperialismo alla globalizzazione, andata e ritorno.

Dalla crisi da sovrapproduzione di merci alla speculazione finanziaria, dal debito ai mutui insolvibili: è attraverso questo spostamento di rastrellamento e investimento di capitali che la grande borghesia sta cercando nuove forme di sfruttamento, recidendo le radici con l’economia della produzione (materiale e perfino immateriale). Utilizzando in forma nuova gli strumenti finanziari tradizionali come le banche o costituendone di nuovi, impostati secondo l’ideologia neoliberista (agenzie di credito, assicurazioni, fondi pensione), sta avvenendo il travaso di risorse economiche da salari, pensioni, risparmi ai profitti e alle rendite parassitarie della speculazione.

Tuttavia, se la crisi che stiamo attraversando ha come causa diretta il gigantesco processo di speculazione finanziaria in atto negli ultimi venti anni, non possiamo dimenticare che essa è l’estrema espressione di una crisi che ha radici profonde e una durata di più di trent’anni.

In sintesi è possibile individuare l’origine dei problemi in una classica crisi da sovrapproduzione di merci emersa negli anni ’70 del XX secolo, che ha indotto la borghesia imprenditoriale a ricercare soluzioni tecnologiche, produttive, organizzative per proseguire nell’estrazione di plusvalore, per fronteggiare la restrizione del saggio di profitto in forte caduta. Tra le varie soluzioni, quella della speculazione finanziaria è divenuto lo scenario prioritario e incensato ideologicamente come New Economy negli anni ’90: il riversamento di miliardi e miliardi di dollari in prodotti finanziari ha determinato due conseguenza collegate, quella di un rigonfiamento abnorme dell’economia finanziaria speculativa e quello di una contrazione ulteriore dell’economia reale produttiva; questa situazione ha provocato varie crisi dovute allo scoppio delle cosiddette bolle speculative in America, in Asia e in Europa, determinate dalla sovrapproduzione di capitali tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso.

La finanziarizzazione dell’economia, cioè la valorizzazione del capitale attraverso parassitarie speculazioni (economia finanziaria) anziché investimenti produttivi (economia reale), si è sviluppata alle dimensioni mondiali con i processi internazionali, transnazionali e multinazionali a cui sono stati sottoposte le aziende e in cui sono state organizzate le stesse transazioni finanziarie negli anni ’90, e nel primo decennio del XXI secolo ha raggiunto il culmine della sovrapproduzione di capitali. La globalizzazione (cioè l’imperialismo nella fase globalizzata a livello sia spaziale, planetario, che strutturale, organizzativo e connettivo5) provoca una movimentazione finanziaria incredibilmente superiore al totale del PIL mondiale e in costante aumento esponenziale: dal 1980 al 2007 l’attivo dei prodotti finanziari globali è aumentato di 9 volte (da 27 a 241 trilioni di dollari), mentre il PIL mondiale è “solamente” raddoppiato (da 27 a 54 trilioni). La finanziarizzazione dell’economia ha superato l’economia reale (indicata dal PIL) di quattro volte e mezzo circa. Ma non basta: vi è un’ulteriore massa di prodotti finanziari al di fuori del controllo pubblico delle borse, che in dieci anni è salito di sette volte e mezzo, (da 92 a 683 trilioni di dollari), cioè più di dodici volte e mezzo il PIL mondiale del 20076.

Creatività dell’estorsione capitalistica: economia “virtuale” per ricchi e impoverimento reale per il proletariato. I trucchi illusionistici della finanza parassitaria e dell’indebitamento indotto.

I dati ci indicano una sproporzione abnorme tra l’economia reale produttiva e quella finanziaria speculativa, ponendoci il problema non solo della dimensione, ma anche della composizione del debito accumulato dagli Stati negli ultimi venti anni. In altre parole, si deve chiaramente indicare che investimenti in azioni e obbligazioni (pubbliche e private) portano enormi interessi principalmente alle banche, ma va anche compreso che esiste una composizione interna ed estera (internazionale) del debito per ogni Stato. Questo aspetto, evidente e ben pubblicizzato dalle componenti nazionalistiche che agiscono in ogni realtà, va esaminato per comprendere come affrontare proprio la questione di cui stiamo discutendo, cioè di quali leve economiche, sociali e politiche occorra muovere per poter rendere percorribile, ancorché di rottura del sistema, una proposta di uscita dalla crisi, da sinistra, in senso anticapitalista.

Insomma, occorre riconoscere, ma anche comprendere bene cosa questo comporta, che le banche e gli istituti finanziari nazionali di ogni Stato (nazionale o confederale: gli USA come la Francia, la Germania, l’Italia, o l’UE nel suo insieme) detengono in molti casi solo una parte del debito sovrano del proprio Stato, mentre una buona parte appartiene a istituti, banche e Stati esteri. Sono dunque indebitati verso creditori esterni: un esempio emblematico è quello degli Stati Uniti, che hanno un debito di 1.160 mld di dollari con la Cina, (primo creditore estero statunitense, secondo solo dopo la Federal Reserve stessa), a cui segue il Giappone con 912 mld e la Gran Bretagna con 347 mld di dollari. È solo un esempio, ma che chiarisce come il problema del debito sia una questione in cui non l’economia di un solo paese è implicata, ma la ramificazione di un “equilibrio”planetario su cui si regge lo stesso sistema capitalistico nell’era di una crisi sconvolgente di lunga durata che da più di un trentennio ha messo in ginocchio le grandi potenze imperialiste uscite dalla Seconda Guerra Mondiale, crisi accelerata dal crollo dell’Unione Sovietica e del “blocco dell’Est” che ha accentuato lo squilibrio costitutivo del sistema economico-sociale e politico-militare occidentale.

In definitiva, se nel sistema capitalistico (ma non solo) «il sistema finanziario è uno strumento indispensabile per il buon funzionamento dell’economia reale»7, la proliferazione indiscriminata e abnorme può essere paragonata ad una degenerazione cancerogena (la “finalità speculativa anziché produttiva”) che origina metastasi (“movimenti di capitale sottratti a regolamentazione” e controllo), siamo in presenza di un fenomeno di ulteriore degenerazione del sistema capitalistico/imperialistico. E non si può dire che sia frutto di un semplice errore o di una distorsione che possa essere corretta, in quanto, lo riconoscono anche osservatori e studiosi non comunisti, «l’odierna “stretta creditizia” non è il risultato dell’insuccesso delle banche. Al contrario, è il frutto del loro straordinario successo nel trasformare un’enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una razza di debitori»8.

Nazionalizzare o internazionalizzare?

Il quadro che si è venuto delineando comporta che la nazionalizzazione delle banche, strumento potente ed essenziale, necessario, non è però sufficiente non dico per risolvere, ma neanche per limitare i danni ad un Paese, né per invertire la tendenza con investimenti pubblici: la nazionalizzazione, in una situazione in cui il debito proviene da soggetti finanziari e creditori esterni, non sarebbe risolutiva fino a quando si acconsente alla richiesta di restituzione del debito.

Occorre pensare, da comunisti, ad una soluzione che non sia legata semplicemente ad una dimensione nazionalista: innanzitutto, perché non sarebbe risolutiva, come abbiamo accennato; in secondo luogo, perché rischia di prefigurarsi come una soluzione populista di destra, protezionistica e autarchica, con una base sociale popolare, ma con tratti fascistoidi.

È necessario invece elaborare una proposta da “sinistra di classe”, che prefiguri prospettiva di nazionalizzazione a carattere internazionalistico (apparentemente una contraddizione, ma in realtà una prospettiva dialettica), cioè una politica che si prefiguri come un processo di espropriazione popolare su scala internazionale delle risorse economico-finanziarie, in modo da convertirle, da profitti e rendite, in investimenti per la produzione di beni e servizi sociali di pubblica utilità e comune interesse. La questione cruciale da affrontare è dunque quella di un coordinamento internazionale di forze coerentemente antiliberiste e anticapitaliste, a partire dai paesi PIGS in collegamento con i BRIC, per costruire una piattaforma politico-economica alternativa alle ricette devastanti della BCE e dell’UE dominata dal “Primo Console” Merkel dietro cui scodinzolano i segugi Sark/onti.

Certamente, questa prospettiva evidenzia la necessità di individuare interlocutori sociali, politici e culturali in una dimensione europea e internazionale, ma soprattutto occorre definire l’assetto, i principi e la coerenza ideologica con cui si leggono i processi storico-politici ed economico-sociali della crisi per evitare confusione e ambiguità nel perseguimento degli obiettivi: l’annullamento del debito per le classi subalterne e i popoli sottoposti al neocolonialismo e al neoimperialismo del XXI secolo; il pagamento della crisi da parte delle classi dominanti della borghesia imperialistica.

Classi sociali o movimento interclassista? Organizzazione dei lavoratori o spontaneismo volontaristico?

Il nodo dunque si sposta dall’analisi della situazione, della natura della crisi, e dall’elaborazione di una possibile soluzione “di sinistra” e “di classe” alla questione del/dei soggetto/i sociale e politico in grado di elaborare, articolare e produrre un progetto economico-sociale e politico-istituzionale antiliberista e anticapitalista che eviti le derive populiste e demagogiche, nazionalistiche e xenofobe, protezionistiche e recessive, interclassiste e subalterne agli interessi (internazionali) della/e borghesia/e nazionali. In breve: un’alleanza tra soggetti sociali e politici che si sottraggano all’egemonia e al dominio della borghesia e si compattino in un progetto politico complessivo di trasformazione sociale in senso anticapitalistico e socialista. Che avviino insomma la trasformazione rivoluzionaria della società verso la transizione socialista alla società comunista.

Ma come si può costruire una simile convergenza/alleanza a carattere anticapitalistico in senso egualitario e progressista, socialista, per il radicale superamento delle diseguaglianze sociali, in un mondo in cui la componente interclassista è penetrata così in profondità nella concezione dei movimenti da caratterizzarne l’identità dell’ultimo ventennio?

La risposta ad una situazione così complessa può sembrare semplicistica, ma rappresenta quella più coerente rispetto all’obiettivo di una trasformazione della società in senso socialista: la concezione organica, che sfugga a ricadute interclassiste che preservano e riproducono economicamente l’accumulazione capitalistica e socialmente la diseguaglianza e lo sfruttamento tra le classi, è quella coerentemente comunista: è perciò necessario che i comunisti, oggi divisi e dispersi in mille rivoli per gli effetti oggettivi della forza dell’avversario, sappiano costruire le condizioni culturali, politiche ed organizzative affinché la lettura dialettica della realtà offra una prospettiva di mobilitazione e di lotta alle masse popolari nei vari paesi, con l’obiettivo di un progetto di società che indichi la fine della disuguaglianza, dello sfruttamento, dell’individualismo.

 

1 Z.Bauman, Capitalismo parassitario, Laterza, 2009, pg.11.

2 Vedi l’articolo di M.Panara Se la finanza si mangia l’economia, Affari&Finanza (inserto de la Repubblica), lunedì 23 gennaio 2012, pg.10

3 Vedi articolo di W.Streeck La crisi del 2008 è iniziata quarant’anni fa, Le Monde Diplomatique (inserto de il manifesto), gennaio 2012, pg.11

4 D.Moro, Non solo debito pubblio. I perché del declino italiano, da il manifesto, 28 dicembre 2011, pg.4

5 La definizione di imperialismo globalizzato non si riferisce ovviamente alla teoria dell’ultra-imperialismo kautskyano o a qualche forma di imperialismo unitario alla Lotta comunista, o ancora alla versione “aggiornata” (divenuta rapidamente obsoleta) dell’Impero di Negri-Hardt, quanto piuttosto alla pervasività proteiforme del capitalismo nella fase imperialista del XXI secolo, che raggiunge ogni angolo del pianeta e lo integra nel sistema non solo con la violenza dell’occupazione territoriale e militare, ma anche per mezzo delle nuove tecnologie informatiche.

6 Confronta L.Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011, pg. 55; Con i soldi degli altri, Einaudi, 2009, pgg.27-28

7 L.Gallino, Finanzcapitalismo, op.cit., pg.54

8 Z.Bauman, Capitalismo parassitario, Laterza, 2009, pg.14

 

Riflessioni per un programma politico-economico dei comunisti nel XXI secolo – CRISI ECONOMICA E TRASFORMAZIONE SOCIALEultima modifica: 2012-01-31T08:23:00+01:00da iskra2010
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