Dal “caso italiano” di democrazia più avanzata al “caso italiano” di liberismo e regressione dalla democrazia

 

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Da Angelo Ruggeri

 

“LE AZIONI NON SORRETTE DALLA TEORIA SONO IMPULSI INFRUTTIFERI” (Gramsci)

 

Il titolo sui “diritti” è la perpetuazionedel metodo introdotto da “destra” e da “sinistra”, all’inizio degli anni ’90, come rinuncia alla rivendicazione di potere sia sociale che politico dalla cui consistenza ha dipeso la conquista, negli anni ’60-’70, dei “diritti” oggi in bilico e indifendibili proprio per l’assenza – in nome della “globalizzazione” e dei “diritti” – di ogni forma di contrattacco del potere della classe operaia al potere del sistema delle imprese. In linea con questa rinuncia, c’è poi la convergenza acritica sui c.d. “beni comuni” pur di non parlare più di socializzazione dei poteri e dell’economia e dello Stato, e quindi di socialismo.

 

L’EPOCA DELLE COSTITUZIONI REGRESSIVE E DELLA REGRESSIONE DALLA DEMOCRAZIA

 

Un’epoca “dove hanno reso plausibile l’inimmaginabile” e dove la gente lo accetta.

 

Governabilità “cinese”. La politica ridotta potere di iniziativa e di indirizzo dei governi.

Ruolo della sinistra nello snaturamento della democrazia italiana.

 

PER UNA NUOVA TEORIA DEL POTERE

 

Il mondo attraversa (e non da oggi) una fase di profonda crisi sociale da ben prima, anche, dell’esplodere della crisi nei centri di potere del capitalismo finanziario, le cui cause sono, in ultima istanza, riconducibili al funzionamento del modo di produzione capitalistico.

Problemi della convivenza soprattuttointernazionale e del degrado della natura, attraversano società e continenti, in un rincorrersi irrefrenabile tra comportamenti arroganti e violenti (anche militari e di “guerra continua”) e tentativi patetici di governi e apparati, ostentatamente, lontani dalla società per tentare di porvi rimedio e di fare fronte a fenomeni di lacerazione sociale e di degrado del territorio e dell’ambiente indotti dall’economia e dall’industrialismo capitalistico, lasciati del tutto incontrollati socialmente e politicamente a causa della (in gran parte voluta) “incapacità” degli stati di farlo.

Anche le conseguenze del ripetersi di disastri sociali (anche di tipo “ambientale” e le “guerra infinita” dichiarate dall’imperialismo del capitale finanziario statunitense da quello europeo, tanto per citare qualcuna delle sue manifestazioni) sono prodotti, rispettivamente, del degrado territoriale ed ambientale e degli imperativi d’espansione economica e politica indotti dai rapporti di potere interni – intercapitalistici – al capitalismo finanziario accentuati dai processi di internazionalizzazione ed investono natura e funzione stessa del diritto internazionale e costituzionale degli stati, che hanno visto profilarsi un processo di vera e propria contraffazione di tutto quel bagaglio teorico ampiamente e marxianamente denunciato come “mistificatorio” con riferimento al nucleo delle questioni dei c.d. “diritti civili”celati dietro la formula della “teoria dei diritti” dello “stato di diritto” come forma del c.d. “stato moderno”.

 

Quello che va oggi denunciato nei termini più perentori (ma in modo, però, da non ridurre la critica entro il chiuso dottrinarismo marxologico di certa letteratura e filologia marxista che esclude l’applicazione del marxismo politico sociale che è quello che conta) per coinvolgere finalmente le masse alla più piena consapevolezza dell’attuale “squadernarsi” del rapporto “funzionale” delle modifiche costituzionali e del diritto e dello stato rispetto alle dinamiche della formazione sociale capitalistica, riguarda il significato che, dal punto di vista culturale e dell’uso incontenibile della “ideologia” manipolatrice di ogni teoria sociale, è venuta assumendo nel mondo l’aggressività della strategia del capitalismo finanziario angloamericano ed europeo, dopo che la vittoria sull’URSS, anziché dar luogo alla “fine della storia” tout court e in particolare alla “fine della storia del ‘900”, proprio al contrario, ha aperto scenari nuovi per spinte ad un “dominio reale” di dimensione mondiale che, certo, non poteva essere automatico, e che, difatti, ha dispiegato nell’attuale “ventennio” (con le specificità di oggi ma non diversamente dal primo “ventennio” del ‘900) le sue proiezioni nei modi più brutali e violenti, sotto ogni profilo economico, militare e istituzionale.

 

Un mondo in cui l’aggressività economica-politica-militare del capitalismo finanziario ci riporta a fasi storiche “premoderne”, quando il potere si autolegittimava e non era in nessun modo sottoposto al diritto costituzionale e internazionale, come oggi si tende ancora a fare sottoponendo il diritto (costituzionale e internazionale) al potere di indirizzo dei governi a loro volta serventi o sottoposti all’incontrollato potere – anche occulto – delle istituzioni di mercato e sovranazionali del capitalismo industriale finanziario.

 

Tutto questo è andato progressivamente accentuandosi anche rispetto a quando, ad es., si arrivò a scandalizzarsi per una sentenza del giudice milanese Clementina Forleo, che, sulla base del diritto internazionale codificato dall’ONU ( in particolare le risoluzioni 32/147; 34/145; 36/109; 38/130; 46/60 e l’articolo 18/2 della Convenzione globale dell’ONU sul terrorismo) ha assolto tre imputati islamici accusati di “terrorismo”, un termine che non è mai stato definito dal diritto internazionale se non chiamando tale l’occupazione di territori da parte di altri Stati”, rispetto a cui tutte le Risoluzioni riaffermano la“legittimità della lotta per l’autodeterminazionedei popoli” anche in forme armate.

Una crisi, insomma, a tutto campo, di fronte alla quale governi ed apparati degli Stati-nazione sono volutamente “incapaci” a porvi rimedio, avendo del tutto rinunciato ad indirizzare l’economia pubblica e privata verso fini sociali e di interesse generale, e a “controllare” la crescente “libertà” di movimento di capitali ed imprese.

Lo Stato si pone sempre più al servizio delle proprie imprese “transnazionali” di riferimento e del sistema di accumulazione capitalistico. Si veda, ad esempio, i paesi dell’America Latina, che sono diventati, in molti casi, colonie militari statunitensi dopo essere diventate colonie economiche e politiche a seguito della penetrazione del regime sociale capitalistico. Quindi, non per una “assenza dello Stato”, ma per scelte congiunte degli Stati-nazionali – in particolare dei governi di centrosinistra– e dei centri del capitalismo finanziario internazionale, si è prodotto il più alto tasso di remunerazione del capitale trasformando tali stati in mercato, terre di conquista e di materie prime, oltre che di produzioni a basso costo, per le imprese capitalistiche “occidentali”, distruggendo il salario indiretto e sociale (sanità, pensioni, eccetera) e privatizzando tutto. Paesi sempre più asserviti, economicamente e politicamente, ai meccanismi del debito estero, in cui la sua “rinegoziazione” ha significato sì uno spostamento dei termini di pagamento, ma con l’usura dell’incremento delle percentuali, per cui il debito ha continuato a crescere.

Rovesciare il meccanismo economico e sociale capitalistico ed i vincoli di sudditanza imperialistici del capitalismo finanziario, diventa sempre più un imperativo vitale, reso oggi potenzialmente possibile dall’estendersi in ogni parte del Globo della contraddizione capitale-lavoro, che, delle tre scuole dei rapporti internazionali e cioè quella realista-conservatrice, quella liberale e quella marxista dell’imperialismo, solo quest’ultima riesce a cogliere la “globalizzazione” nella sua natura più vera di instaurazione della struttura dei rapporti di produzione e sociali capitalistici (e della sovrastruttura dei poteri dall’alto degli stati occidentali), anche là dove non esistevano, ad opera delle imprese transnazionali.

 

Per un tale fine ciò che si profila come basilare in quanto vero e proprio punto debole delle posizioni di c.d. “sinistra” di varie specie, è saper affrontare la “vexata quaestio” dello Stato per far fronte alle forme di poteree di Stato che la borghesia liberale ha posto a garanzia dell’inviolabilità dei rapporti sociali e di produzione capitalistici, ed operare teoricamente per individuare, promuovere ed attuare un orientamento teso a spostare l’asse del poteredall’alto verso il basso, verso il popolo (da dotare di poteri reali d’intervento nella società) e per democratizzare effettivamente la società, lo Stato, i partiti.

Un lavoro in cui può essere utile una rivisitazione del pensiero di Gramsci, che ha a suo tempo individuato il ruolo fondamentale degli apparati ideologici di Stato nella riproduzione dei rapporti sociali dominanti (con la loro legittimazione culturale del potere) e la natura “politica” –e non solo “tecnica”– del diritto, ma di cui è rimasta inutilizzata una cospicua parte: proprio quella oggi più necessaria e decisiva e che non si saprebbe catalogare se non nel quadro – per usare tale terminologia – di quella che la teoria borghese titola “teoria generale del diritto e dello stato” che però Gramsci ha saputo specificare e disarticolare connettendo questioni istituzionali e rapporti tra forze sociali e forze politiche, teoria economica e teoria del diritto e dello Stato. Un contributo determinante che attraverso l’analisi della società di massa e del fascismo – che teorici precedenti non avevano potuto vedere e analizzare – ha portato a nuovi e più recenti e avanzati sviluppi dell’elaborazione di una teoria marxista dello Stato (in proposito, si veda quanto, “usando” il pensiero del marxista sardo, ha prodotto Salvatore d’Albergo, Diritto e Stato tra scienza giuridica e marxismo, Sandro Teti Editore, 2004) che gran parte del marxismo ha invece colpevolmente tralasciato. Lo Stato “borghese” è stato solamente considerato un “apparato repressivo” ed una “macchina” da rompere. Da qui il vuoto sui temi del diritto e dei differenti modelli costituzionali (ad esempio della differenza tra Costituzione e Stato liberale e Costituzione e Stato democratico) o sulla variabilità storica delle forme di Stato, che ha reso sia i post marxisti (sia certo marxismo economicistico e deterministico), sia sul terreno teorico e soprattutto su quello dei fatti, subalterni rispetto a forze capitaliste capaci, invece, di un uso sapiente e articolato degli strumenti del diritto e delle Costituzioni per aggirare la “questione sociale” ricorrendo alla mistificazione dei c.d. “diritti” e dei c.d. “beni comuni”.

 

Lezioni di “governabilità” dalla Cina

 

Le evoluzioni giuridiche della Cina confermano che l’assunto ideologico secondo cui il potere va sempre e solamente inteso come comando dall’alto, porta alla conseguenza di fare dei governi e dei vertici esecutivi (in qualsiasi tipo di istituzione, anche politica e sociale, anche di partito o di sindacato) delle “variabili indipendenti” dalla base e dalla società. La Cina si è avviata a diventare il più grande paese capitalista del mondo assumendo finanche forme “americane” di negazione dei diritti sociali (ad esempio la totale cancellazione di ogni forma di sanità pubblica, una scuola che assorbe fino al 70% del salario di chi vuole frequentarle, per non parlar del supersfruttamento del lavoro, dei bassi salari e relativo licenziamento di tutti coloro che rivendicano minimi aumenti) ma mantenendo “formalmente” le le stesse “forme di potere” statale del “socialismo”.Si è potuto lasciare del tutto intatto l’impianto generale della Costituzione “socialista”, grazie e in forza di un potere autoritario e repressivo che, a parità di Stato plasmato dal partito “comunista”, perviene a rovesciare l’ordine economico-sociale sancendo “l’inviolabilità” della proprietà privata – da “abolita” che era – nella stessa forma e formula con cui la si introdusse nell’Italia liberale del 1848 (mentre la Costituzione democratica e antifascista italiana, 100 anni dopo, impose che fosse almeno resa compatibile con l’interesse sociale).

 

La Cina dimostra, in modo lampante, quanto poco diverse dalle peggiori forme “borghesi” fossero le forme di Stato e di potere costruite in nome del cosiddetto “socialismo reale”, intercambiabili con qualsiasi forma economica e buone per tutte le stagioni, anche per quella del neoliberismo. La Cina è un clamoroso esempio di un’epoca solcata da “Costituzioni regressive”,in cui tutte le forme storiche di organizzazione del potere –dai regimi di tipo autoritario, a quelli di “democrazia formale”/elettorale, a quelli che si dicevano di “democrazia sostanziale” o “socialista”, e tutti i partiti e le forze politiche e sociali, di destra e di sinistra– trovano, nonostante la diversità delle forme, un punto teorico di omologazione sotto l’idea del dirigere e del governare dall’alto. Il “governare” e il “dirigere” è oramai ovunque solamente inteso come restringimento –anziché allargamento– della società, come arroccamento di gruppi di potere dietro forme apparenti di “democrazia”.

 

Lanciata personalmente dagli esponenti “illuminati” del capitalismo privato della Commissione “Trilateral” come i Rockefeller, Kissinger, Agnelli, Monti, ecc. in nome dell’esigenze delle imprese di ridurre la democrazia per contrastare gli effetti delle lotte sociali e democratiche di massa degli anni ’60-’70, l’ideologia della governabilità è, in quanto tale, incompatibile con una prospettiva di democrazia sostanziale, sociale e diretta – ma persino di democrazia “minima” di libera dialettica sociale e politica – che attiene alle forme e all’organizzazione della democrazia sociale, di base, di territorio, di fabbrica, di quartiere, eccetera. Per un potere di iniziativa e di proposta dal basso che è l’opposto della cosiddetta “democrazia diretta” liberale, ovvero del pseudo-democratico referendum abrogativo, a cui si acconcia ormai tutta la “sinistra” (anche quella cosiddetta “radicale”) sia per abrogare leggi, sia per “primarie” codiste e personalistiche di modello statunitense, in cui quesiti e candidati sono sempre e comunque proposti dall’alto, dai vertici politici e culturali, e quindi volti a consolidare il primato degli esecutivi sulla società e il sociale.

 

PER UNA NUOVA TEORIA DEL POTERE

Che superi il potere esclusivo di iniziativa e di indirizzo dei governi come il vero potere politico

 

La Cina non rappresenta il solo esempio di “Costituzione regressiva”. Rilevanti sono anche le modifiche intervenute nella Costituzione e nel sistema politico italiano. Prima di esaminarne qualcuna, va posta l’attenzione su un punto: il potere di direzione ed iniziativa è il vero potere politico. Il vero potere politico è di chi propone e dispone, inizia e promuove, indirizza e guida, orienta e determina. Ed oggi, qualunque sia la forma di governo –presidenziale o parlamentare, pluripartitico, bipartitico o a partito unico– il vero potere “dominante” delle istituzioni statali è quello “esecutivo”.

Il cosiddetto “controllo”, cui sono stati ridotti i Parlamenti, in quanto attività esercitata a posteriori, non solo è reso in pratica impossibile (ad esempio quando il governo, in sede d’approvazione di provvedimenti economici e finanziari, pone ripetutamente la “fiducia”), ma non è nemmeno tale, essendo il vero controllo solo quello che si esercita in ogni fase, prima e durante le fasi di impostazione, preparazione e indirizzo, e non dopo “a posteriori”. Tanto che tale “controllo” non è considerato in alcuna teoria del potere.

È in nome del “controllo” che si sono cancellati il ruolo e il potere delle assemblee regionali e locali, già con le cosiddette “riforme” degli enti locali e regionali predisposte da famigerate leggi “Bassanini” e dei governi dell’Ulivo, e poi col cosiddetto “federalismo”, con tanto di “presidenzialismo” del sindaco e del presidente elettivo voluto da forze “di sinistra” che considerano “meno grave” (e invece è persino più grave, stante che così le istituzioni locali negano la socialità proprio dove non si può negarla, cioè nel territorio) se tale primato è del governo e del primo ministro (o del capo dello Stato) sul Parlamento.

Col “federalismo” si è ulteriormente perfezionato tutto ciò che ha cancellato l’autonomia delle istituzioni locali sia dal lato della gestione delle risorse, controllate dal Centro e da esso ripartite, sia soprattutto dal lato della produzione delle risorse, in quanto il “federalismo” espropria le autonomie regionali e locali di ogni titolarità nella politica economica. Questa è infatti messa a disposizione dei vertici di potere centrali, mentre i Bassolino ed i Formigoni e i Vendola, sedicenti autonomi, si autodefiniscono “governatori”, cioè col nome che è proprio del funzionario del governo centrale quando viene distaccato in un territorio e che è del tutto subalterno e privo di autonomia dal governo. Il “federalismo” si conferma così – come ben si vede negli USA – come la più raffinata e sofisticata delle forme di potere oligarchico, grazie ad un potere centralistico chenon si “decentra” affatto, bensì si deconcentra in una articolata pluralità di centri di potere verticistici e presidenziali.

È in nome del “controllo” turlupinato come “potere” che si riducono i parlamenti–e la sovranità popolare – a variabili dipendenti dagli esecutivi. Il Parlamento si trova, nella pratica, sempre più ridotto a dover spulciare, rovistare, frugare nei piatti che gli vengono cucinati, confezionati e passati da altri. Il tutto secondo la formula “americanizzante” e anglosassone per cui “il governo deve governare e il parlamento controllare”. Una formula opposta sia a quella del “governo parlamentare” previsto dalla Costituzione italiana del 1948, sia a quella di una coerente impostazione della sovranità popolare, in cui il Governo non deve affatto governare, bensì “servire” il popolo, che è il vero sovrano. Il governo dovrebbe quindi “governare” solo per il tramite del Parlamento e di un potere organizzato dal basso, cioè sociale, in cui sarebbero fondamentali partiti e sindacati democratizzati, in cui cioè il “potere di iniziativa” non sia messo totalmente ed esclusivamente nelle mani dei vertici, ma anche della base (cioè del sociale).

L’opposto, quindi, di ciò che invece accade, soprattutto col maggioritario, nei partiti: ad esempio nella “sinistra radicale” di vario conio – intellettuali, politici, giornali, sindacalisti -, dove, come già in passato, ad es. in RC, le mozioni congressuali predisposte dal basso sono state impedite, essendo “autorizzate” solo quelle decise dal vertice. E dove, detto per inciso, rifacendosi ad una tradizione riformista e revisionista –e storicamente dimostratasi errata– della teoria marxista dell’imperialismo, la sua corrente maggioritaria preferisce promuovere una concezione “negriana” (anche di “Impero” anzichè di imperialismo) contro cui dovrebbero muoversi masse individualizzate, né socialmente né politicamente organizzate, prive di “forma” collettiva sia intellettuale che sociale

 

Dal “caso italiano” di democrazia più avanzata al “caso italiano” di liberismo e regressione dalla democraziaultima modifica: 2012-05-03T08:47:00+02:00da iskra2010
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