Deriva da revisionismo sociale-elettorale-istituzionale

  

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da Angelo Ruggeri

L’ultimo incontenibile smottamento dell’asse teorico e organizzativo della democrazia di massa è iniziato quando da un lato i radicali seguiti da “democrazia proletaria” hanno posto sempre più l’accento sui “diritti” individuali, e i socialisti e la destra comunista hanno enfatizzato la rivoluzione tecnologica.

Le vicende degli anni ’80, dopo l’azzardo parlamentarista della “solidarietà nazionale”,delineano chiaramente la connessione tra la svolta a destra del Psi di Craxi-Amato, il contrattacco antioperaio(emblematicamente rimasto legato alla decretazione contro la scala mobile), e l’avvio (con la Commissione-Bozzi) di quella enfatizzazione della “governabilità” e del “primato dell’esecutivo” e per esso del Premier la cui pericolosità è stata avvolta dalle ambiguità con cui la sopravvivenza di unruolo puramente formale del “popolo”– dopo che si è abdicato all’iniziativa dei partiti di massa – è stata evocata nel segno della politica “referendaria” e che specialmente quella contraria al sistema proporzionalesi è rivelata poco per volta come l’altra faccia della strategia istituzionale “antiparlamentare” e contraria alla “democrazia organizzata”.

Per capire quale sia il retroterra della deriva del sistema sociale e politico italiano a cui siamo pervenuti, vale bene ricordare anche il retroterra che ha provocato, dall’inizio degli anni ’90, l’imporsi incontrollabile della strategia delle “riforme istituzionali”. Tale imposizione tramite l’abolizione del sistema proporzionale èculminata oggi nel profilarsi di due progetti, uno della destra e l’altro della “sinistra”, che proprio grazie al bipolarismo maggioritario e al premierato presidenzialista sono tra loro omologhi, e che vengono contrapposti solo per l’enfatizzazione ad opera del centro-sinistra dell’inaccettabilità di soluzioni “subordinate” della teoria del costituzionalismo liberale dei “checks and balances”. Va precisato che il terreno privilegiato dalla borghesia, nello sviluppo delle sue strategie volta a volta di fondazione, conservazione, riconquista del pieno dominio nella società, è sempre identificabile nel modo di concepire il “quadro istituzionale”di uno Stato che è frutto delle esigenze di classe di intrecciare “ordine pubblico e ordine sociale” (sempre e come anche vediamo da ultimo anche dopo i fatti del 15 ottobre) a qualunque costo, storicamente, persino dando luogo al fascismo e al nazismo, come varianti, solo apparentemente antitetiche, del liberismo. Ciò risalta, se non si fa l’errore di ritenere che il liberismo, a differenza del corporativismo fascista e di quello democratico, non si avvale dello Stato e del diritto,poiché appunto la differenza tra “regolazione” e “gestione” del potere in economia va colta nella diversa qualità del sostegno che il capitalismo cerca e trova nello Stato e nel diritto. Tale sostegno che nelle soluzioni di “assunzione in mano pubblica” di settori di economia capitalistica – non a caso avviati e potenziati dal fascismo – si è prestato, in un ordinamento di tipo democratico come quello italiano, ad “incursioni” volte a stravolgere le finalità di soccorso del sistema capitalistico nei settori in cui i privati non hanno convenienze di profitto, “incursioni” democratizzanti tanto più inaccettabili per il sistema se strumentali “ante litteram” a funzioni programmatorie “globali” di tipo democratico-socialecome quelle tentate nella breve ma intensa stagione delle lotte in Italia: in parte sviluppate rivendicandosi il nesso tra diritto di sciopero, proporzionale elettorale, centralità del parlamento nella rete delle assemblee del potere locale e in virtù del condizionamento ad opera del potere politico-sindacale del “calcolo economico” proprio del sistema delle imprese complessivamente inteso, ed in parte invece sulla premessa dell’insufficienza della Costituzione del 1948 a legittimare una conflittualità foriera di una transizione effettiva al socialismo nella versione delle formazioni “extra-parlamentari”.

La drammatica alternativa giocatasi in quegli anni va inserita in una lettura coerente tra il contenuto della diaspora ideologica est-ovest (con al centro il rapporto Usa-URSS) che ha connotato avanzate e arretramenti del conflitto di classe, tenute o violazioni dall’ “alto” e dal “basso” dell’ordine pubblico, e la trama dello “stragismo” e degli attentati terroristici e/o “di stato” come aspetti di un medesimo disegno: sì che il processo di europeizzazione nel suo procedere non lineare, ma in arrestato, appare come manifestazione avvolgente di una strategia che vedeva confluire le linee “liberiste” con quelle “socialdemocratiche” nel momento stesso in cui, sul piano mondiale, si consolidava uno scontro, senza esclusione di colpi, tra comunismo e anticomunismo che, in una certa fase, ha visto i comunisti occidentali (i francesi ben prima, sotto i colpi di un gollismo subito anche dal Pcf, gli italiani più tardi a causa di un cedimento alle insidie politico-culturali dei socialisti “riformisti” pentiti ormai dell’alleanza unitaria del periodo della Resistenza) scivolare, a partire dalla fine degli anni ’70, poco per volta verso un’abdicazione consumata interamente dopo la scomparsa di Togliatti e di Berlinguer, quando si sono drammaticamente posti gli interrogativi sul modo di superare la annosa “conventio ad excludendum” con cui i comunisti solo a livello comunale, provinciale e regionale erano stati legittimati a occupare, oltre alle assemblee elettive, anche i luoghi di vertice del potere istituzionale.

E la drammaticità visibile nell’alternativa tra sviluppo del conflitto e difesa del golpismo, era intrinseca alla lettura di segno, del tutto opposto, tra il ritorno ad una “unità democratica” analoga a quella che aveva accompagnato gli anni 1944-47 per fondare la Repubblica e per elaborare una Costituzione qualitativamente più avanzata del tradizionale costituzionalismo, e l’avvio di una “alternativa democratica” che non si riducesse “come poi è avvenuto” con la sostituzione del proporzionale e l’abbandono delle lotte sotto gli impulsi revisionisti del PDS, formazione politica “di sistema” e parricida del Pci in quanto partito “antisistema”.

La valutazione della complessità dei termini dell’antitesi tra il Pci e la democrazia “bloccata” (tra aspetti di politica interna e di politica internazionale che hanno alimentato la raffinata analisi dello storico marxista Franco De Felice su “Doppia lealtà e doppio stato” -1989) non può oscurare gli aspetti dominanti di natura ideologica, poiché, isolando l’attribuzione al gruppo dirigente del Pci della responsabilità di non avere sciolto definitivamente i rapporti “internazionalistici” con l’Urss, si rischia di fare da copertura della rimozione delle cause profonde della preclusione sopravvenuta contro una formazione politica che, sulla base della Costituzione, alimentava una strategia di lotta per introdurre “elementi di socialismo” nei rapporti strutturali e sovrastrutturali risalenti, in Italia, alle fasi prefascista e fascista senza riferimento ad alcuno dei caratteri del “socialismo reale” nei paesi dell’est: sì che la “normalizzazione” perseguita dal variegato fronte anticomunista – palese ed occulto – implicava la cancellazione della presenza attiva di un partito e di un sindacato che puntavano “a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”, con l’obiettivo di pervenire “alla effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del paese”.

E i fatti parlano, appunto, nel senso di attestare come gli sviluppi (divenuti palesi) dei tentativi, prima “occulti”, di minare la democrazia italiana siano stati alimentati in un intreccio tra linee strategiche formalmente separate ma funzionali l’una all’altra, come è avvenuto per l’insistita denuncia di una c.d. “crisi del parlamento” per delegittimare le lotte sociali e il loro riverbero istituzionale nella “centralità” del parlamento e di lì respingere il c.d. “assemblearismo” dei movimenti e delle istituzioni per passare ad una revisione della forma di governo per sconfiggere una visione inedita del “governo parlamentare” in quanto estranea ai modelli del costituzionalismo liberale: scoprendo la necessità di ricorrere all’autorità di Bobbio , in quanto teorico “liberal-socialista” ed assertore della c.d. “inesistenza” della teoria marxista del diritto e dello Stato, che arriva a concludere che quindi la teoria del diritto e dello Stato o è borghese, o non è.

Le vicende degli anni ’80, fallito il tentativo di assorbire il Pci nell’area governativa nel contesto dell’oscura trama del “sequestro Moro” dopo l’azzardo parlamentarista della “solidarietà nazionale”, delineano chiaramente la connessione tra la svolta a destra del Psi di Craxi-Amato, il contrattacco antioperaio (emblematicamente rimasto legato alla decretazione contro la scala mobile), e l’avvio (con la Commissione-Bozzi) di quella enfatizzazione della “governabilità” e del “primato dell’esecutivo” e per esso del Premier la cui pericolosità è stata avvolta dalle ambiguità con cui la sopravvivenza del ruolo formale del “popolo” – dopo che si è abdicato all’iniziativa dei partiti di massa – è stata evocata nel segno della politica “referendaria” rivelatasi poco per volta come l’altra faccia della strategia istituzionale “antiparlamentare” e contraria alla “democrazia organizzata”: come tipicamente dimostrano le esperienze dei paesi storicamente legati all’uso del referendum, strumento manipolato dai gruppi di potere della “società civile” se non addirittura da dirigenti di partito e di sindacato, per trascinare un elettorato privo di potere politico autonomo e dotato solo del potere di sanzionare con la scheda le strategie prospettate da “promotori” contrari agli interessi reali delle masse sfruttate, per mantenerle subalterne con la rinuncia a organizzarsi con i partiti e i sindacati di classe per far valere quel “potere” che solo vale realmente a garantire i “diritti”.

Per facilitare tale tipo di deviazione, si è contestata la centralità dello stesso conflitto di classe, separando le questioni che riguardano la “persona” da quelle che riguardano la “società”, come le questioni della famiglia e dei sessi, per scindere le questioni stesse rapportabili al ruolo del capitale, facendo dell’ambientalismo un ambito settoriale espunto dal carattere complesso ed organico del sistema di accumulazione della ricchezza e del suo articolato uso del territorio, sino ad enfatizzare il contrasto dei “cittadini” interessati a tutelare il “territorio”, contro i “lavoratori” ridotti a difendere “corporativamente” il loro ruolo nella produzione.

Così, da un lato i radicali, seguiti da “democrazia proletaria” hanno posto sempre più l’accento sui “diritti” individuali, e i socialisti e la destra comunista hanno enfatizzato la rivoluzione tecnologica come terreni distinti ma convergenti nel privare sempre più di fondamento l’azione di massa contro le forme di un dominio che nella nuova fase del processo di internazionalizzazione rivelava l’intreccio sempre più perverso tra capitalismo finanziario e capitalismo industriale: accreditandosi così anche a sinistra l’idea che la democrazia diretta è compatibile con il solo modo di governare proprio del costituzionalismo liberale nel quale il popolo non ha sovranità reale ma solo formale, e comunque come tale “funzionale” al governo dall’alto, specialmente con il ricorso all’uso del referendum.

Ne è derivato uno smottamento incontenibile dell’asse teorico e organizzativo della democrazia di massa, una volta rimesso al centro dei rapporti tra società civile e società politica il capitalismovisto ora come “rete” transnazionale,rispetto al quale possono porsi (e solo residualmente) questioni presentate propagandisticamente sotto il simbolo di uno “stato sociale” ormai depotenziato: restando in tale ambito solo da ricostituire le condizioni della efficienza nel funzionamento di istituzioni-azienda, con una rinuncia al conflitto sociale contro il primato dell’economia sulla politicache tra i guasti prodotti ha anche dato la stura ad una inedita richiesta di “federalismo”soloapparentemente centrifugo, in cui una parte della società mossada un movente di “egoismo sociale” e territoriale operante tra le pieghe dell’organizzazione capitalistica prendeva visibilità nelle vesti di un “leghismo” che è divenuta parte sempre più provocatoriamente attiva di un capitalismo che nel Lombardo-Veneto trova le sue basi e i suoi intrecci anche con il ricorso al ricatto “secessionista”, per meglio insediare, in combinazione con un “centro” liberista, quei baluardi a favore dell’impresa che le forze ispirate ai principi della democrazia sociale avevano tentato, viceversa, di piegare per imporre alla rete delle imprese grandi, medie e piccole i vincoli programmatori a partire dai “distretti industriali” (su di che vedasi, Angelo Ruggeri, Leghe e Leghismo– L’ideologia, la politica, l’economia dei “forti” e l’antitesi federalista al potere dal basso, 1997, quaderno n.2 de “Il lavoratore”).

Si sono così venuti mescolando un individualismo assoluto e una reazione di massa che, accentuando la cronica differenza Nord-Sud, sono divenuti strumento di manovra di una estrema destra che – esauritasi la delegittimazione prodotta dall’antifascismo e dalla Costituzione vista nello stretto nesso tra la Prima e la Seconda Parte – si è trovata scodellata l’opportunità di caratterizzare una nuova maggioranza socio-politica, sulla scia di un tralignamento inopinatamente favorito proprio dai residui di una sinistra che nel Pci era rimasta ostaggio della destra, divenuta così l’anima del nuovo corso di un PDS alla scoperta di una “normalizzazione” coincidente con l’omologazione ideologica agli interessi del grande capitale internazionale e nazionale: disponendosi con lo slancio tipico del “neofita” a servirne il dominio ormai dilagante senza limiti dopo la crisi del sistema sovietico. Servizio formalizzato con l’assunzione della guida della c.d. “transizione” alla seconda repubblica tramite due “commissioni bicamerali” (De Mita-Jotti, e D’Alema), la seconda delle quali (1997) ha cercato di dare uno sbocco oramai incontenibile alle più timide e ambigue tendenze emerse nella precedente (1993), su un versante configurando un c.d. stato “regionale” spinto (si è detto) “sino ai limiti del federalismo”, e su un altro versante puntandosi a scegliere una delle varianti che la dottrina dominante si compiace di denominare forme di “governo parlamentare” al di là di marginali differenze dal sistema “presidenziale” statunitense imperniato su una più marcata “separazione dei poteri”, ma mettendo in disparte il fatto reale che equipara tutti i sistemi di governo, rispettivamente, affini al premierato britannico e al presidenzialismo nordamericano, nel segno cioè del governo dall’alto in virtù di una manipolazione della c.d. “sovranità popolare” volta a dare legittimità alla “passività” di un ruolo di ratifica con il voto elettorale dei programmi dei gruppi di potere dislocati nel “bipartitismo” o nel “bipolarismo” su un medesimo asse ideologico, soprattutto in politica estera.

Di fronte a ciò si stenterebbe a credere, con una memoria storica fondata su schemi meccanicistici, che il disancoraggio del Pci dalla via seguita con più o meno coerenza in tutto il dopoguerra fino al 1984 (anno dell’attacco alla scala mobile, e della morte di Berlinguer), abbia il suo ascendente nella corrente più “critica” delle posizioni moderate di un partito nel quale operavano da tempo “centri studi” tra i quali quello “per la riforma dello Stato presieduto da Pietro Ingrao.

Se non si volessero rileggere i documenti che attestano con precisa datazione il canovaccio di una elaborazione sfociata in imprevedibile deviazione nel passaggio tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 proprio con riguardo alla “questione istituzionale” , si rende ora possibile trovare una precisa sintesi – nella diagnosi su” “Pietro Ingrao – Il compagno disarmato”, di A. Galdo 2004 – laddove viene rievocata la “via d’uscita molto radicale” contenuta nella proposta del 1985-1986 di un “governo costituente” (Sic!) munito di un mandato limitato all’approvazione delle riforme istituzionali, per “aprire le porte alla Seconda Repubblica e alla democrazia dell’alternanza: costruita attraverso una nuova legge elettorale che favorisca il giudizio fra due schieramenti alternativi, l’introduzione di maggiori poteri per il capo del governo, l’abolizione di una delle due Camere e la drastica riduzione del numero dei parlamentari”.

Sembra certo incredibile, tenuto conto della complessiva produzione politico-culturale dell’autore di “Masse e potere” (1978), che proprio a lui si debba una proposta “dirompente”anche se formalmente respinta dal Pci poco prima di essere raccolta dal PDS, creando così le premesse culturali della successiva trasformazione dello stesso sistema dei partiti in un pluralismo politico artificioso che mortifica il pluralismo sociale,nel segno di un interclassismo pilotato da organismi divenuti solo “macchine elettorali”per la conquista dei vertici dello Stato avvalendosi del principio maggioritario,con il passaggio dalla “democrazia organizzata” alla separazione organizzata tra “burocrazie” incontrollabili e iscritti ed elettorato,estraniati anche dalla sola conoscenza dell’oggetto del contendere sulle “riforme istituzionali” chiuse nelle conventicole degli apparati e degli “accademici” tornati alla cultura delle asettiche “alchimie” di modelli di forma di governo tra loro omologhi.

E’ mancata così la consapevolezza – oltre che nell’elettorato negli stessi ambienti culturali non costituzionalistici – del fatto che il quadro essenziale delle contrapposizioni sulla “revisione della Seconda Parte della Costituzione” ha avuto la sua configurazione anticipatrice della deriva autoritaria “berlusconiana” già all’interno della “Commissione bicamerale” presieduta da D’Alema – di cui si è perduto il ricordo per l’interruzione dei suoi lavori provocata proprio da Berlusconi sotto l’urgere dei suoi ben noti interessi anche non politici – Commissione che nel contempo ha lasciato il segno di due “rotture” costituzionali: l’una, mirante ad assimilare i lavori di tale Commissione a quelli di una “assemblea costituente” di cui si era ritenuta inopportuna l’istituzione, e l’altra mirante a modificare (“una tantum” ovviamente come si fanno le rotture) il procedimento di revisione costituzionale nei termini previsti dall’art. 138 della Costituzione, per rendere “costitutivo” e “obbligatorio” il referendum popolare stabilito in via “eventuale” (cioè su richiesta) per la conferma o viceversa per il rigetto di un testo di revisione non approvato dai due terzi delle Camere.

Perciò la denuncia, solo oggi lanciata, contro i rischi che la revisione della Seconda Parte intacchi anche la Prima parte della Costituzione è quindi tardiva e insincera in quel che concerne il nesso tra la forma di governo e la forma di stato, essendo i partiti di centro-sinistra (e i giuristi che ne sono prevalentemente pronubi) mistificatoriamente protesi a omettere che la Prima Parte è stata elaborata in funzione non già di “garantire” il mercato, ma, al contrario, per “condizionarlo”: ecco perché si è modificato lo stesso linguaggio politico-culturale, parlandosi ora di una anodina “democrazia costituzionale” come fondamento dei “diritti fondamentali”, nascondendo che la trama della Prima Parte concerne testualmente i “rapporti” (civili, politici, sociali, edonistici) in funzione dei diritti che vi si innestano; sicché, non a caso, nella Costituzione si parla di “Principi Fondamentali” volti a modificare rapporti espressivi delle differenze di classe e dei diritti di riferimento.

Si spiega così perché la Commissione D’Alema non ha esitato a proporre la modifica della stessa logica sistematica cui è ordinata la Seconda Parte relativa all’organizzazione dello Stato, predisponendo il passaggio al “federalismo” (irrazionalmente avviato poi nella frettolosa legge costituzionale del 2001 con la risicata maggioranza di quattro voti in una frenetica emulazione della Lega Nord rivelatasi peraltro velleitaria) mediante l’anteposizione del “titolo” riguardante l’articolazione della Repubblica in comuni, province e regioni al posto del “titolo” riguardante il ruolo del Parlamento e così inserire un “titolo” sulla “partecipazione dell’Italia all’Unione Europea” in omaggio all’ideologica opzione del centro-sinistra per quella scelta europeistica che implica una concezione “pan-federalistica” – nazionale-sovranazionale – nella prospettiva neo-centralistica che, universalmente, ha acquisito il federalismo contemporaneo rispetto al federalismo “duale” ottocentesco, prima cioè dell’imporsi del raccordo tra capitalismo e istituzioni.

In tale logica, l’attacco al Parlamento veniva completato, facendolo slittare dopo i “titoli” relativi rispettivamente al Presidente della Repubblica e al Governo, aprendo così la strada alle alternative oggi in discussione sulla forma di governo (premierato, presidenzialismo, semi-presidenzialismo, cancellierato) che hanno dato la stura alla ricerca, da parte di Berlusconi, di uno dei vari “bricolage” che la fertile e cointeressata mente di giuristi e politologi (proni agli interessi del capitalismo e oramai nettamente antioperai e antisociali, ad onta di un “welfare” posticcio ed elemosiniere) si può permettere di escogitare fuori da ogni controllo.

Ed una volta imboccata la strada dell’incostituzionalità operata nella inconsapevolezza di massa che regna in materia, la Commissione D’Alema ha imboccato il “tunnel” nel quale oggi si dibatte scompostamente il centrosinistra, senza trovare echi nel centro-destra, optando per l’elezione a suffragio universale del Presidente della Repubblica, per la primazia del Premier, esaltando il ruolo politico della Camera rispetto al Senato, riducendo l’area della “riserva di legge” sino a prevedere la modificabilità di norme di legge con regolamento, e avviando il travagliato percorso dell’attacco alla organizzazione della giustizia con la previsione in seno al CSM di una Sezione per giudici separata dalla Sezione per i pubblici ministeri, attribuendo al CSM il compito di assegnare i magistrati alle funzioni giudicanti ovvero alle funzioni inquirenti e anticipando la trasformazione della Corte Costituzionale nella logica “federalista”, e mediante la previsione dell’elezione di tre giudici dalle “regioni”.

Non si può, quindi, nel chiamare alla lotta contro le proposte del centro-destrra, omettere di sottolineare che il centro-sinistra non ha le carte in regola, e che deve fare completa autocritica sia con riguardo al federalismo sia con riguardo al “premierato assoluto”, perseguito ora da Berlusconi, e ciò per una serie di motivi precisi, documentabili che vanno tutti circostanziati se si vuole vincere utilmente il referendum.

Infatti, oltre a quanto già rilevato, va tenuto presente che il centro-sinistra ha fatto del federalismo il marchingegno per introdurre il principio della c.d. “sussidiarietà” tra autonomia privata e autonomia dei poteri locali nella titolarità delle funzioni, con il riconoscimento costituzionale dell’autonomia dei c.d. “enti funzionali”, ciò che incide testualmente sul raccordo tra Prima e Seconda Parte della Costituzione, dando spunto all’estremismo istituzionale che in termini di “devolution” mira addirittura a spostare tutto l’equilibrio socio-economico-istituzionale.

In tale ottica risalta allora che il federalismo è ben lungi dal riflettere lo slogan sulle istituzioni “più vicine ai cittadini”, in quanto, al contrario, mira solo a ridistribuire l’organizzazione verticale delle classi dirigenti (nella logica centripeta dei c.d. “governatori”), mentre razionalizza la gerarchia tra gli interessi economico-finanziari-militari di competenza dello stato federale vero e proprio, sugli interessi sociali “devoluti” alle regioni-stato, in simmetria con la ripartizione delle competenze tra gli organi “comunitari” e quelli degli stati/nazione.

Soprattutto, per quel che concerne la forma di governo su cui il centro-sinistra si sta stracciando le vesti, occorre tener presente che l’obiettivo di respingere il progetto del centro-destra va perseguito facendo crescere una coscienza di massa sul fatto che, nel contempo, si deve far “tabula rasa” di tutto il processo di elaborazione agli atti dal 1993 ad oggi, avendo chiaro che nella “relazione di minoranza” (al Senato) si legge che “noi vogliamo una forte democrazia governante” (espressione già usata dai craxiani sin dal 1979), che “occorre un sistema che consente agli elettori di decidere sul programma”, dovendo in tale percorso “l’ingegneria istituzionale fare i conti con due tendenze sociologiche oggi dominanti, la personalizzazione della politica e la sua spettacolarizzazione mediatica”.

E’ infatti deviante la critica che il solo centro-destra è condannabile per il suo “mescolare” i modelli (girovagando tra premierato britannico, presidenzialismo statunitense, semi-presidenzialismo francese e cancellierato germanico), dando per scontato che ciascuna delle soluzioni cc.dd. “pure” e storicamente varianti dell’autoritarismo sarebbero coerenti con la “democraticità del sistema”: tanto che si è persino arrivati a presentare formalmente un emendamento per la soluzione nordamericana, pur di allinearsi ad una delle opzioni consentanee con le classificazioni accademiche di giuristi che, peraltro, fuori dalle didascalie manualistiche, si compiacciono di legittimare ogni deviazione dalla c.d. “purezza” dei modelli formali, ricorrendo, abusatamente, a dare prova di un “realismo congiunturale” rifacendosi ai “rapporti di forza” propri della “politica”, e canonizzati, vuoi con il ricorso alle c.d. “consuetudini costituzionali”, vuoi alla mai sufficientemente deprecata teoria della “costituzione materiale” che assolve, acriticamente, ogni delegittimazione dei modelli formali di Costituzione.

Non si può seguire seriamente tale metodo di denuncia, poiché proprio in tema di “bricolage” l’equivoco più insidioso si cela nella conclamata soluzione del cancellierato di Bonn, definito mistificatoriamente come “neo-parlamentare” perchè mescola aspetti “pseudo-parlamentari” – dato che il Parlamento è chiamato a votare una proposta ad esso estranea ma calata dall’alto – e aspetti “presidenzialistici” per la parodia che tale “voto” esprime rispetto al “voto” popolare; così come il c.d. semipresidenzialismo (che in verità è un “duplice” presidenzialismo o presidenzialismo “bicefalo”) è, a sua volta, una miscela di aspetti del “premierato” e di aspetti del “presidenzialismo”: ma su tali caratteristiche implicazioni domina il silenzio, preferendosi discettare sulle specifiche forme che i differenti “modelli” presentano, nelle rispettive articolazioni dei “segmenti” procedimentali (come a proposito del caso della controfirma, della disciplina dello scioglimento delle camere), che si presentano tradizionalmente come il terreno del più vieto arzigogolare di politici vestiti da tecnici e di tecnici vestiti da politici.

Perciò fa una certa impressione rileggere oggi la posizione ufficiale che, nella Commissione D’Alema, aveva assunto, in tema di forma di governo, quel Cesare Salvi che oggi si distingue per una collocazione a sinistra nei Ds, quando cioè, in quel clima già favorevole allo smontamento costituzionale in corso, scrisse testualmente che “la critica all’elezione diretta come portatrice di possibile autoritarismo o plebiscitarismo va certamente ridimensionata, e comunque non si può esorcizzare l’elezione di una carica come antidemocratica”, concludendo che nell’intento di individuare “un modello originale” la scelta “semipresidenziale” va valutata “in controluce” con quella del “premierato” dato che “non esiste un modello semipresidenziale e un modello di governo del premier” ma “diverse varianti dell’uno e dell’altro”.

Ora che si parla senza più un solido presupposto ideologico e teorico di una “riforma sbagliata” (con l’omonima titolazione di disparati interventi di 63 costituzionalisti, a cura di Bassanini, 2004), c’è da stigmatizzare l’incongruenza del riferimento ad un generico “sbagliare”, quando si legge che c’è nel centro-sinistra chi ha a sua volta proposto il “premierato assoluto” e chi il modello westminster “con riferimenti” al cancellierato, mostrandosi persino disponibilità a discutere il modello presidenziale in uso negli Stati Uniti (come da proposta di Bassanini-Manzella), nonché ad attribuire tutti i poteri e le prerogative che hanno, a diverso titolo, il Primo Ministro inglese e il Cancelliere tedesco: sino al punto che, mescolando tatticismo costituzionalistico con opportunismo politico, è stato osservato, sia per motivi “di carattere prudenziale”, sia per motivi di merito, che siccome la riforma oggi in parlamento non può dirsi “nel suo complesso espressione di una nuova cultura egemone” in grado di porsi in alternativa alla cultura che ispirò la costituzione del 1947, si potrebbe concludere che la riforma in corso, “anche se approvata, non sarebbe in grado – anche se incostituzionale – di determinare di per sé, immediatamente – una discontinuità ‘costituzionale’ ” (Dogliani-Massa Pinto, ivi).

Se nell’accademia si arriva a commentare così, va preso atto di quali guasti possano derivare dalla teoria dello “stato di diritto” come dimostrano gli arretramenti in corso nel nostro ordinamento in connessione con la sbandierata “Costituzione europea”, consolidandosi una cultura dell’autoritarismo più sfrenato, frutto di un radicale stravolgimento “costituzionale” del valore del “sociale” rispetto all’evoluzione rappresentata (nei suoi noti limiti) dalla stessa concezione “weimariana”, e ideologizzata con un modello neo-liberista che “omogeneizza” le finalità delle istituzioni europee e quelle degli stati governati dagli attuali centro-destra e centro-sinistra: avendo, cioè, sovvertito la concezione marxista del rapporto tra capitale e lavoro, tra socialità ed economicità, sulla premessa che il “welfare” si rende proponibile, oggi, non più in nome della “eguaglianza sociale” ma nell’interesse della “crescita economica e dello sviluppo sostenibile”, avendo in mente le priorità di un mercato che va sostenuto anche con un impiego del reddito che “garantisca gli investimenti produttivi” traducendo i bisogni in domanda effettiva, e procedendo a tal fine ad una “ricomposizione del patto tra capitale, lavoro e stato” (in Il modello sociale nella costituzione europea, a cura di C. Borgna, 2004).

Se si vuole evitare che tale ottica prevalga indefinitamente, per bloccare i rischi di una competizione che in Italia si va facendo sempre più aspra con una evocazione di “miti” ispirati ad un esiziale ritorno “all’idealismo” (foriero del passaggio a fasi prefasciste, come nella odierna fase nordamericana) per l’adempimento di una “missione”, sull’onda di “appeal emozionale” pur di avere consenso (attivo o passivo non importa), occorre rilanciare la critica a tutto campo della democrazia borghese oggi rinverdita a sinistra con rischi di stravolgimenti ulteriori della destra, evidenziando il risvolto “classista” e non “politicista” dell’idea di legge proporzionale (come ben rammentato da Riccini nel n. 105 della Contraddizione): con l’avvertenza – ora che se ne sta riparlando da destra anziché da sinistra (solo disponibile quest’ultima a non contestare acriticamente) – che si deve trattare di proporzionale “pura”, e non “corretta” per “razionalizzare” gli appagamenti dei vari gruppi di potere in rissosa “coabitazione” per la (e nella) “stanza dei bottoni”.

 

Deriva da revisionismo sociale-elettorale-istituzionaleultima modifica: 2012-05-04T08:26:00+02:00da iskra2010
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