I media e l’immagine distorta della Cina

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Dixi et salvavi animam meam
Marx (Critica al programma di Gotha)
Si deve ad un’osservazione del sinologo Mackerras l’aver sottolineato la differenza tra “immagine”, “realtà” e “verità”. Secondo Rawnsley è nella natura dei media occidentali andare verso gli “estremi” nella percezione di nuovi valori. La complessità della Cina fa si che sia difficile presentare un’immagine semplificata che possa essere descritta come accurata o inaccurata, per cui non è facile ridurre il gap tra l’immagine e la realtà (Views of China 2006). Tant’è, noi ci proveremo.
 
L’Occidente deriva gran parte della sua immagine attuale della Cina dalle vicende di Tienanmen (Views of China 2006). Sino a Tienanmen  la Cina  aveva goduto di una certa protezione o neutralità mediatica in Occidente. Non era il nostro nemico diretto durante la guerra fredda. Questo ruolo era detenuto dall’URSS con cui  la Cina  aveva addirittura iniziato una breve guerra. Attraverso la diplomazia del Ping Pong, con la visita di Nixon a Pechino nel 1973, si era adombrata una sorta di alleanza tattica con l’Occidente in funzione anti-sovietica.  La Rivoluzione Culturale  era stata un fenomeno cult nei giovani del sessantotto. L’immagine della Cina presso l’estrema sinistra si era formata su libri del tipo “Stella rossa sulla Cina” di Edgar Snow o su quelli di William Hinton. Tutto sommato l’Occidente pensava che  la Cina  maoista con la sua povertà egualitarista fosse una tigre di carta priva di influenza globale e comunque non aveva ancora assunto l’aspetto inquietante del Dragone in piena espansione, l’Orso russo incuteva più timore. Le riforme di Deng le avevano fatto perdere fascino nell’estrema sinistra ma aveva guadagnato prestigio nella sinistra tradizionale (PCI, Internazionale Socialista a cui il PCC era stato ammesso come osservatore).
 
I cinesi stentano a capire come mai  la Cina  pragmatica odierna desti molta più inquietudine che non quella ultra-rivoluzionaria del passato. Il problema è che oggi con la sua potenza conquistata nel commercio globale è percepita dagli USA e di conseguenza da tutto l’Occidente come la sfida a cinque secoli di dominio Occidentale[1]. All’immagine rassicurante degli anni ’80 quando l’opinione pubblica americana era favorevole alla Cina si è sostituita, grazie all’intervento nel Congresso USA delle lobby industriali concorrenti e dei sindacati che vedono nella Cina la minaccia ai posti di lavoro, un’immagine nella quale “l’Impero di Mezzo” è la reiterazione dell’Impero del Male con tanto di Gulag e di diritti umani violati. Questioni di politica interna e di politica globale dunque si sovrappongono. Dopo l’episodio di Tienanmen una’immagine ostile della Cina si è definitivamente consolidata con gli assalti di massa dei giovani cinesi all’Ambasciata a Pechino e i consolati americani nel resto del paese, dopo il bombardamento dell’Ambasciata cinese a Belgrado e, infine con la “repressione” dei monaci tibetani a Lasha nel 2008.
 
Il sinologo Stefano Cammelli ha evidenziato come dopo Tienanmen il giudizio dell’Occidente cambi radicalmente. Raggruppo, per semplificare, in una serie di punti gli argomenti di Cammelli (con qualche mia aggiunta). Per l’Occidente dopo Tienanmen:
La Cina  è debole
Il suo crollo è imminente (da vent’anni…) e comunque fatale.
Il crollo condurrà alla democrazia, a cui tutti i cinesi aspirano. Il regime è fragile perché rifiuta di prendere atto che non esiste progresso economico senza democrazia.
Il regime sordo al dialogo si spinge sempre di più in una via senza uscita.
Il regime cinese è solo aggrappato ai privilegi di una esigua minoranza corrotta che vive nel lusso a detrimento della maggioranza angariata e schiavizzata. Tutti sono schiavi in Cina: operai e contadini.
La comunità internazionale dedita al business è quindi compartecipe della schiavitù dei lavoratori cinesi (l’antiglobalizzazione occidentale è tutta qua).
La Cina  approfitterebbe della divisione in Occidente tra i puri che hanno il coraggio di dire le cose che vanno dette e il silenzio cinico e colpevole di chi protegge gli interessi delle imprese e dei pescecani occidentali (è il background di tutte le articolesse dei moralizzatori occidentali).
 
In Cina l’unico interesse è il denaro. L’unica ideologia è arricchirsi. Al contrario dei tempi di Mao in cui valeva solo l’ideologia politica, l’egualitarismo ecc. Il governo è costretto a inanellare risultati economici straordinari per tenere buona l’opinione pubblica che altrimenti si ribellerebbe. (Ma, se i beneficiari del boom economico sono una ristrettissima casta di corrotti perché il popolo, che addirittura sarebbe più povero che ai tempi di Mao, non si ribella ora?). Infatti (siccome il tutto non è privo di una certa logica) il governo è debolissimo e minato già oggi da migliaia di rivolte violente.
Il regime è morente, anzi è già morto, aspetta solo una spallata. La questione tibetana potrebbe essere l’occasione giusta (ma va bene anche il latte taroccato, il terremoto, l’inflazione, la crisi economica con dei miserissimi 8-9% di crescita). Ogni mese il regime cinese dovrebbe cadere per una ragione diversa e spesso opposta di quella del mese precedente.
 
Cammelli obbietta a questi luoghi comuni della visione occidentalista che la realtà non potrebbe essere più diversa. Siamo nel periodo dei fatti di Lasha del 2008 e in piena campagna di boicottaggio delle Olimpiadi: “mai, come in questo momento, il governo cinese e il PCC hanno potuto contare sulla compatta solidarietà dell’opinione pubblica cinese (Cammelli 2008)”.
 
Ma dalle giornate di Tienanmen è iniziata l’attesa spasmodica del crollo del regime cinese che ormai non rappresenta più nessuno se non se stesso. Ovvero una piccola cricca di profittatori che vivono nel lusso più sfrenato mentre il resto della popolazione vive nella miseria più nera. A dar man forte a questa convinzione interviene Guilem Fabre che scrive dalle colonne di Le Monde Diplomatique: “del divorzio tra  la nascente società  civile e uno stato incancrenito dal potere mercantile (Fabre 1990)”[2]. Cammelli fa risalire a questo tipo di discorsi (non a caso nati a sinistra), il passaggio dalla denuncia della sovranità limitata sovietica alla riformulazione della sovranità limitata dei neo-con (non caso nati a loro volta da una costola della sinistra). Chi non accetta la civiltà occidentale è il possibile bersaglio “dell’interventismo democratico”:
Nelle giornate di Tienanmen l’Occidente ha decretato  la morte del  regime cinese decretandone anche  la non rappresentatività.  Per l’Occidente c’era nel paese un clima da guerra civile e non si può dare solamente un po’ di democrazia alla gente.  La modernizzazione senza   la democrazia renderà  debolissima  la posizione del  governo. Fu secondo questa versione l’avidità dei governi e dei comitati d’affari a salvare un governo per altri versi destinato alla sconfitta. L’occidente passa dalla difesa dell’indipendenza nazionale contro  la teoria brezneviana  della sovranità limitata alla teoria della difesa della democrazia anche in paesi terzi (Cammelli 2008).

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In generale gli osservatori occidentali hanno avuto un’attitudine teleologica e semplicistica sulla Cina. Le contraddizioni economiche dovevano per forza scatenare una ribellione politica. Le previsioni funeste si sono concentrate sull’adesione al WTO che avrebbe fatto saltare tutti gli equilibri economici della Cina. L’abbassamento delle tariffe doganali avrebbe dovuto provocare l’effetto di una terapia shock sulle aziende cinesi e sull’agricoltura. Ma  la Cina  ha negoziato la sua adesione in modo che avvenisse in maniera morbida (capacità di aumentare le sovvenzioni agricole, quote massime di importazione dei cereali fissate al 10% dei consumi interni) sia con misure diverse da quelle doganali che per altro sono utilizzate ampiamente dalle potenze commerciali quali: barriere sanitarie, lentezza del regolamento dei conflitti, protezionismo provinciale. Sullo stesso rischio bancario si sono scritte cose poco sensate. All’indomani dell’apertura al WTO il settore bancario, tranne poche eccezioni, è sostanzialmente nelle mani dello stato. I depositi stranieri sono trascurabili e hanno un controllo limitato sul loro capitale investito. In un momento di panico, lo stato può decidere autonomamente di fare ricorso alla forza per bloccare il ritiro dei depositi da parte dei risparmiatori (Huchet 2003).
 
L’Occidente si pronunciò in modo apodittico dopo Tienanmen: il governo cinese era condannato a morte certa mentre l’opposizione sarebbe inevitabilmente ritornata all’attacco. Alla Cina si è applicato lo schema già collaudato con  la Polonia. Le  lotte di Solidarnosc iniziate nei primi anni ’80 alla fine portano al rovesciamento del regime. Cammelli nota: “Il post-1989 è tutto qui. In questa attesa di un crollo cinese, nella certezza che il clima da guerra civile sia ormai carattere emergente della situazione politica interna e il crollo politico del regime sia forse rimandabile ancora per qualche tempo ma sia, in qualche modo, inevitabilmente segnato (Cammelli 2008) .”
 
Ad esempio Jean Louis Rocca già nel 1995 inaugura una linea che avrà molta fortuna: quella delle rivolte contro il potere politico (Rocca 1995). Citando la rivista di Hong Kong, Zhenguming parla di migliaia di incidenti con incendi di uffici governativi del Partito e della Polizia con inevitabile contorno di morti e feriti, segno evidente della prossima fine del regime. La sentenza è di quelle che non lasciano scampo: Una sola convinzione: il socialismo reale cinese agonizza (Egido 2004).
 
Per Roland Lew che scrive su le Monde Diplomatique già nel 1992 il socialismo in Cina è morto ed è nato il famoso “capitalismo selvaggio” e  la Cina  è in piena agonia: “C’è qualcosa di sinistro, un riconoscimento della decadenza del regime, nel disegno che il futuro di più di mille milioni di persone dipenda dalla sorprendente resistenza di un pugno di anziani (Lew 1992a).

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La questione della gerontocrazia è importante perché è spesso ricordata a sproposito per la dirigenza cinese.  Deng si era ritirato dal Comitato permanente nel 1989 per non superare i due mandati ossia dieci anni sebbene rimanesse la prerogativa di essere consultato sulle questioni importanti fino al 1996. Durante il periodo di Jiang Zemin egli ha fatto in modo “che avvenisse una sorta di formalizzazione istituzionale della leadership al vertice del partito e dello stato, mediante sia mutamenti costituzionali, come il limite di due mandati per la carica di primo ministro e per quella di presidente della repubblica, sia consuetudinari, come la regola non scritta secondo cui i membri del Comitato Permanente del Comitato Centrale si ritirino a settanta anni, ad eccezione del Segretario Generale del partito (Miranda 2001)”. La cosa singolare è che l’Italia si è trovata con uno stravagante ometto di settantacinque anni che oltre ad essere il più ricco del paese ha monopolizzato il potere dopo il 2000. 
 
Naturalmente essendo assai poco coerente la sinologia prima vanta le ribellioni nei villaggi contro il regime ma poi si lamenta della “grande docilità” dei contadini nei confronti del potere (Egido 2004). Questo sebbene un sinologo dovrebbe sapere che i contadini cinesi hanno prodotto grandi ribellioni nel passato e costituirono la base sociale della rivoluzione comunista. C’è il capitalismo selvaggio ma si lamenta la mancanza di una “borghesia organizzata” capace di opporsi evidentemente non al capitalismo selvaggio ma ai comunisti. Apprendiamo anche da Lew che la crescita economica “è fragile”. Da allora in poi  la Cina  coglierà, in modo del tutto strafottente, una serie di successi senza precedenti nella crescita economica e molti ora pronosticano un “secolo cinese”. Insomma tutti sono al capezzale del paese che si è rivelato ancora, con l’ultima crisi economica, il più sano del pianeta. Ossia del paese che vanta “ (la) storia di maggior successo registrata negli ultimi trent’anni su scala planetaria: è un paese saldo e sempre più fiorente, un attore responsabile sulla scena internazionale, un centro di gravità per l’Asia e un’ancora di stabilità e prosperità per il mercato (Cheek 2007, 167)”. Peccato che gli investitori stranieri credano poco ai sinologhi e abbiano fatto della Cina il principale ricettore degli investimenti esteri. Per Cammelli il giudizio del dopo Tienanamen, fu così radicale che divenne impossibile comprendere  la Cina : “Tutto quello che è successo in seguito per noi rimane un mistero. Una cosa è sicura gli studenti da allora sono scesi in Piazza più facilmente per difendere  la Patria  contro  l’Occidente che per rivendicare  la Democrazia Occidentale.  Molti in realtà videro nel disordine di quei giorni affacciarsi lo spettro della Rivoluzione Culturale (Cammelli 2008).
 
L’effetto sull’opinione pubblica degli avvenimenti di Tienanmen fu terribile. I sondaggi d’opinione mostrano che i cittadini americani che hanno un’opinione favorevole della Cina oscillano tra il 65 e 72% mentre quelli che hanno un’opinione sfavorevole sono tra il 13 e il 28% nel periodo che intercorre tra il 1980 e il marzo del 1989. Dopo il 4 giugno i favorevoli sono tra il 16 e il 34% mentre gli sfavorevoli tra il 54 e il 58% (dati da State Departement Office of Pubblic Affairs). Se tre quarti degli americani vedevano favorevolmente  la Cina  prima nella prima parte del 1989 solo un quarto rimane di questa opinione alla fine dell’anno. Un cambiamento così brusco, rileva uno studio della Joan Shorenstein Barone Center on the Press, Politics and Public Policy, si incontra raramente nei sondaggi di opinione. La coalizione anti-Pechino praticamente nasce dal nulla. Fino al giugno del 1989 c’era generalmente un atteggiamento favorevole nei confronti di Pechino anche se più passivo che attivo. La coalizione anticinese comprende studenti cinesi che studiano all’estero (in seguito diverranno i maggiori difensori della Cina), sinoamericani fino allora rimasti in silenzio e quasi tutti filo Kuomintang (in seguito anche queste comunità diventeranno tra i maggiori difensori del loro paese), antibortisti contrari alla politica del figlio unico, lobbies per i diritti umani, protezionisti che vedono minacciati i loro affari in patria. I liberal del Congresso che avevano portato acqua al mulino del governo ora usano  la Cina  per mettere in difficoltà l’amministrazione Bush. Un atteggiamento che diventerà tipico della sinistra occidentale (Turmoil 1992).
 
La votazione del Congresso USA per le sanzioni contro  la Cina  è stata senza precedenti sostiene Henry Kissinger, giacché quelle passate contro URSS e Sudafrica semplicemente vietavano di dare ulteriori vantaggi a quei paesi ma non ritiravano quelli già conseguiti. Il Congresso addirittura non ha stabilito alcun criterio per l’eventuale revoca delle sanzioni (Kissinger 1989). Harry Harding in Brooking Review (primavera 1992: “Dalla crisi di Piazza Tienanmen nel giugno del 1989…gli americani hanno percepito  la Cina  in termini cupi. Repressiva a casa, irresponsabile all’estero, impegnata in scorrette politiche commerciali contro gli Stati Uniti. Ambedue le istanze del congresso sono passate con larga maggioranza, legislazioni che possono costare alla Cina il suo stato di nazione più favorita” (Turmoil 1992, p. 208)
 
Dopo Tienanmen una certa “sinologia” è diventata scienza peripatetica e rigorosamente deduttiva nella quale si inserisce una filosofia della storia fondata sulla certezza che vi sia un unico racconto valido sul mondo. Questo racconto è la storia occidentale e nella storia occidentale c’è un dogma: il progresso economico arriva unicamente con la democrazia liberale[3]. Ciò che aspetta  la Cina  è l’occidentalizzazione della politica. Giacché a Tienanmen si è stabilita la non rappresentatività dei governanti cinesi allora è inutile affibbiargli l’etichetta di “socialisti” che li collega in qualche modo ad una ideologia umanitaria e altruista. Ad esempio Guilem Fabre scrive: “il capitalismo trionfa nella Cina socialista più che nella Russia desovietizzata” (Lew 1992b). I cinesi sono capitalisti ma attenzione, non come noi, sono ultra-liberisti e turbo-capitalisti. Non guardano in faccia a nessuno. Tutto è fatto per il profitto fine a se stesso. I cinesi ci avvelenano con i loro prodotti taroccati, con il loro inquinamento che porta a una drammatica crescita della mortalità.[4] Ma non i cinesi in quanto tali, noi non siamo razzisti, bensì i dirigenti cinesi che avrebbero schiavizzato la loro stessa gente: orari di lavoro impossibili, militarizzazione della fabbrica, lavoratori senza tutela. In Cina c’è una manciata di super-ricchi, con le loro clientele che monopolizzano la ricchezza della nazione il resto è alla fame. Questi ultimi provano a ribellarsi, le rivolte sarebbero addirittura quotidiane, ne parlano persino i loro media, ammissione che la situazione è gravissima. Le rivolte vengono sempre soppresse nel sangue. I dirigenti deciderebbero persino quanti figli devono fare i cinesi. Per chi viola le regole c’è il campo di concentramento, la demolizione della casa e via dicendo. Tutto sarebbe deciso da una ristretta cricca di oligarchi. Nessuna libertà è concessa. Se poi la realtà va in tutt’altra direzione sono pronte le ipotesi ad hoc. Se i cinesi invece che per i diritti umani scendono in piazza contro l’Occidente inveendo contro l’inganno dei diritti umani, in piazza ce li ha mandati il Partito. Quello stesso partito che fino a ieri era completamente screditato, ora invece ha la capacità di mobilitare il popolo. I miti non hanno bisogno di coerenza interna, si sa, ma anche qui è pronta una nuova ipotesi ad hoc: i dirigenti cinesi hanno sostituito il comunismo con il nazionalismo, che spiega come riescano a mobilitare le masse ecc. Un quadro che più che peripatetico si direbbe semplicemente patetico.

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Cheek faceva già notare che molti dei pregiudizi anticinesi si erano già consolidati ai tempi della guerra dell’oppio. Tra gli europei “i giudizi negativi dei mercanti d’oppio e degli imperialisti frustrati ( la Cina  è debole, corrotta, rifiuta  la modernità e  cerca attivamente di non avere a che fare con il mondo civilizzato) sono diventati di dominio comune” mentre per i cinesi tuttora è presente l’indignazione delle elites cinesi del tempo: “l’Occidente è rapace, violento, bigotto e non interessato alla civiltà confuciana, ma è spaventosamente potente e foriero di prodigiose tecnologie (Cheek 2007, p.7)”.
 
Con l’espansione nel XIX secolo, del colonialismo anglosassone cambiò l’immagine del paese.  La Cina  per la corruzione e la povertà e la sua cultura sorpassata era impossibilitata a progredire se non con l’aiuto esterno. La visione etnocentrica dell’Occidente caratterizzata da un’attitudine paternalistica e di sfruttamento nei confronti delle civiltà orientali come sintetizza Edward Said,  ha attribuito lo status di “pericolo giallo” di volta in volta alla Cina come in parte al Giappone alternandoli nel ruolo di minacce per l’Occidente. Tanto che si può dire che quando  la Cina  aveva un’immagine positiva i giapponesi ne avevano una negativa e viceversa (Mackerras 1996). Così fu nella seconda guerra mondiale con il Giappone che faceva la parte del cattivo[5] mentre nel dopoguerra era  la Cina  rossa rivestire questa parte, negli anni ’80 la minaccia ritornò il Giappone con le sue esportazioni e di nuovo dopo l’89, con la definitiva assimilazione del Giappone all’Occidente, i panni del cattivo di turno sono di nuovo vestiti dalla Cina. I media occidentali in generale hanno l’attitudine di assumere posizioni anti-asiatiche come ad esempio nei confronti di Singapore (Chou 2010).
 
Si può dire che questo modo di guardare alla Cina rappresenti in Occidente una sorta di totalitarismo del pensiero. Pressoché nessuno mette seriamente in discussione il paradigma dominante, il dissenso è tutt’al più relegato in qualche blog su internet. Ma, a dispetto del pensiero unico occidentale, l’attuale governo sembra tutt’altro che sull’orlo del crollo. Ricordiamo che per Lew “l’attuale modo di governo ha raggiunto il suo limite”… già nel 1992 (Egido 2004). Lew non è Nostradamus evidentemente e il Partito Comunista è passato dai 52 milioni di membri nel 1993 per arrivare ai 78 milioni del 2009. Il rapporto del Pew Global Attitudes Project, uscito a metà del 2008 ci dice che l’86% dei cinesi sono contenti del loro governo mentre all’opposto solo il 22% degli americani lo siano (French 2008).
 
Il popolo cinese, sembra, sia tra i più soddisfatti del pianeta. Più dell’80% dice il Pew Research Center già nel 2008 che i cinesi siano soddisfatti per l’andamento dell’economia del paese e in senso generale, il 65% pensa che il proprio governo stia facendo un buon lavoro. Il 96% pensa che le Olimpiadi (che sarebbero iniziate di lì a poco) saranno un successo, e il 93% pensa che i giochi avrebbero migliorato l’immagine del paese. Un’indagine della BBC mostra che i cinesi credono che l’influenza globale della Cina sia positiva, mentre l’opinione della media degli altri paesi tale percentuale è solo al 47% (Kamm 2008).
I media occidentali hanno manipolato ed esagerato i fatti di Tiananmen nel 1989, quando i cinesi erano arrabbiati e protestavano. Il popolo cinese ora è contenuto del proprio governo (anzi, molto più contenuto di quanto gli americani lo siano del loro), ma ai media sostanzialmente questo non risulta (Chou 2010). Indubbiamente esisteranno giustificazioni ad hoc anche per questo, ma se fosse tutto vero ciò che si dice della Cina vorrebbe dire che i cinesi sono alquanto masochisti. Noi daremo un’interpretazione diversa dal paradigma totalitario vigente nell’informazione occidentale che forse spiegherà la razionalità di quel consenso.
 
Dopotutto non è stato sempre così. Come ricorda Arrighi personaggi come Adam Smith e grandi uomini di cultura dell’Illuminismo europeo quali Voltaire, Leibnitz e Quesnay guardavano alla Cina come fonte di ispirazione morale e politica. Per Quesnay l’Impero Cinese è”ciò che l’Europa sarebbe potuta diventare se i suoi stati si fossero riuniti sotto un unico sovrano” (Arrighi 2008, 15-16). Domenico Losurdo aggiunge:
Per tanto tempo la grande cultura europea aveva guardato con curiosità e interesse alla Cina: dov’erano le guerre di religione che insanguinavano l’Europa? Esse erano impedite da una religione che rifuggiva dal mistero e dal dogma, risolvendosi nell’etica. Per i philosophes era più facile riconoscersi nei mandarini che non nel clero cattolico o nei pastori protestanti. L’importanza del ruolo svolto da un ceto di intellettuali laici nel grande paese asiatico era confermata dal fatto che là le più alte cariche dell’amministrazione erano spesso assegnate mediante concorso pubblico piuttosto che essere appannaggio, come avveniva in Francia, di un’aristocrazia nobiliare, alleata e intrecciata col clero. In ogni caso, in Cina il principio laico e moderno del merito aveva la meglio sul principio oscurantista del privilegio fondato sulla nascita e sul sangue. (Losurdo 2005, pp. 308-9)


[1] “La verità è che, a partire dagli anni Ottan­ta, il governo cinese ha costantemente cooperato con l’Occidente sulle questioni internazionali – alle Nazioni Unite, con il wto. Nonostante la paura suscitata ad arte dalla nostra stampa e dai nostri politici per distrarci dai problemi interni delle nostre società,  la Cina  della rifor­ma è stata un buon vicino a livello internazionale…(Cheek 2007, p.167) ”.
[2]  La Cina  è letteralmente l’unico paese al mondo dove non va bene il mercato. Sebbene un esperto non dico di Cina ma di cineserie dovrebbe ricordare che forse in mercato è nato proprio lì quando ancora Romolo e Remo succhiavano il latte dalla lupa. Una certa sinistra se la prende con il mercato ormai solo quando si parla della Cina.
[3] Cammelli definisce questo modo di vedere.“[la] convinzione, di origine colonialistica e di immarcescibile vitalità, che progresso e democrazia procedano di pari passo. Sicché l’uno abbia bisogno dell’altro, e senza l’uno non vi possa essere l’altro”(Cammelli 2008)(Cheek 2007, 167).Cheek si chiede come possa essere interpretato in questo contesto “il fatto evidente che negli ultimi due decenni  la Cina  non si è democratizzata, ma ha, ciò nondimeno, avuto un tasso di sviluppo economico straordinario, superiore ad ogni altra potenza mondiale” (Cheek 2007, XVII).
[4] Cheek suggerisce saggiamente qualcosa di un tantino diverso: “[…]  la Cina  è troppo grande perché le si possa ordinare che cosa fare. E nemmeno perché il governo cinese intenda assoggettare il suo popolo e avvelenare il mondo. I leader cinesi auspicano che  la Cina  diventi una grande potenza e allo stesso tempo, una potenza rispettata. Inquinamento, corruzione, merci scadenti sul mercato internazionale: essi (per non parlare della maggioranza dei cittadini) non vogliono nulla di tutto ciò.” (Cheek 2007, XV).
[5] Il Time dedica dieci copertine, durante gli anni 30-40,  a Chang Kai Shek che viene visto come unica salvezza per  la Cina  (Franceschini 2010).

Bibliografia

Arrighi, Giovanni. 2008. Adam Smith a Pechino. Genealogie Del Ventunesimo Secolo. Feltrinelli.
Cammelli, Stefano. 2008. “Debolezza Della Cina e Problema Tibetano.” Polonews http://www.polonews.info/articoli/Saggi%20critici/20080505.pdf.
Cheek, Timothy2007. Vivere Le Riforme. La Cina Dal 1989EDT.
Chou, Jennifer. 2010. “20th Anniversary of Tiananmen and the Biased Western Media.” Anti-Establishment Examinerhttp://www.examiner.com/anti-establishment-in-national/20th-anniversary-of-tiananmen-and-the-biased-western-media.
Fabre, Guilem. 1990. “La Chine Gangrenée Par Le Mercantilisme Du Pouvoir.” Le Monde Diplomatique.
Fabre, Guilem. 1993. “Les Espoirs Du Capitalisme En Chine.” Le Monde Diplomatique, April.
Franceschini, Ivan. 2010. “Dentro Lo Specchio: Una Storia Dei Corrispondenti Stranieri in Cina.” http://www.cineresie.info/storia-dei-corrispondenti-stranieri-in-cina/.
French, Howard W. 2008. “Despite Flaws, Rights in China Have Expanded.” New York Times.
Huchet, Jean-François. 2003. “« Gordon G. Chang, The Coming Collapse of China ».” Perspectives Chinoiseshttp://perspectiveschinoises.revues.org/document93.html.
Kissinger, Henry. 1989. “The Caricature of Deng as a Tyrant Is Unfair.” Washington Posthttp://www.naomiklein.org/shock-doctrine/resources/part4/chapter9/caricature-deng-tyrant-unfair.
Lew, Roland. 1992. “Un Capitalisme Chinois Nommé Socialisme.” Le Monde Diplomatique.
Losurdo, Domenico. 2005. Controstoria del liberalismo, Laterza, 
Mackerras, Colin. 1996. “Western Images of China:” Revista Española Del Pacífico (8).
Miranda, Marina. 2001. “Mondo Cinese – I ‘Documenti Di Tian’anmen’ e La Successione a Jiang Zemin.” Mondo Cinesehttp://www.tuttocina.it/mondo_cinese/106/106_mira.htm#12.
Rocca, Jean-Louis. 1995. “Les Successeurs De M. Deng Xiaoping Face Aux Conséquences Des Réformes : Population Et Dirigeants Locaux Unis Contre Le Centre”, March.
Turmoil. 1992. “Turmoil at Tiananmen. A Study of U:S: Press Coverage of the Beijing Spring of 1989”. Harvard University. http://www.hks.harvard.edu/presspol/publications/reports/turmoil_at_tiananmen_1992.pdf.
Views of China. 2006. “Roundtable Discussion on ‘The West Looks East: Contemporary Views of China’.” Institute of Asia-Pacific Studies Ningbo, November 24.

 

I media e l’immagine distorta della Cinaultima modifica: 2012-06-13T08:22:00+02:00da iskra2010
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