LA COSTITUZIONE E’ SALVA! PER QUANTO?

 

Costituzione italiana 5.jpgelaborazione MOWA

 

 

 

INTANTO, IL GOVERNO DELL’UNIONE PROSEGUE CON LO SPREGIO ALL’ARTICOLO 11 CONFERMANDO L’ITALIA UN PAESE IMPERIALISTA

BLOCCARE IL REVISIONISMO COSTITUZIONALE

RILANCIANDO LA DEMOCRAZIA DI MASSA

L’esito del “referendum costituzionale”, che ha sorpreso per l’insospettabile dimensione della partecipazione al voto da cui è derivata la qualificazione politica del prevalere netto nel “no” alla revisione “organica” della Seconda parte della Costituzione, accentua la responsabilità delle valutazioni che sul significato del raccordo società-stato, società-partiti-istituzioni, nonché del nesso referendum-leggi “ordinarie” e leggi “costituzionali” incombe – per certi versi, soprattutto – alle forze politiche che hanno rifiutato di riprendere il ruolo di “sinistra parlamentarista” proprio del costituzionalismo liberale, in funzione del “rilancio” dei Principi fondamentali della costituzione democratica e antifascista nata sulle onde della Resistenza, per affermare il primato della “eguaglianza” in nome del “lavoro”, contro il primato del “capitale” e delle oligarchie istituzionali installatesi nella “cabina di regia” del “neo-federalismo” nazionale e internazionale.

Venendo a smentire le prospettive di chi ha frenato il dibattito sulla revisione costituzionale per facilitare una desistenza di massa come sbocco di una presunta stanchezza dell’elettorato dopo tante chiamate alle urne, il popolo, abbandonato dai partiti ormai snaturatasi da forma della rappresentanza popolare a “lobbies” interessate solo alle “passività” del consenso delle cosiddette “primarie” populistiche e “codiste”, ha colto la seconda occasione presentatasi di confermare o respingere una legge di revisione costituzionale per rovesciare un indirizzo controriformatore che aveva preso avvio in modo strisciante alla fine degli anni ’70, in una voluta separatezza eguale e contraria all’intima connessione che, tra popolo sovrano e Assemblea costituente, si era mantenuta nell’arco di tempo che va dal 1944 al 1946/48.

A dispetto di quanto avvenuto nel 2001 – quando il centro-sinistra chiamò a confermare la legge di revisione costituzionale con cui a costo di uno scarto di soli 4 voti di maggioranza impose l’avvio del federalismo in un ordinamento dal quale mancavano tutti i presupposti socio-politici per una tradizione civile unitaria e autonomista fatta valere alla Costituente dai partiti di ispirazione “marxista” – contro la risicata partecipazione al voto del 34% – c’è stata la ben più significativa partecipazione del 54% circa, imponendo un “quorum” non previsto: con un’accentuazione che questa volta è valsa a respingere, anziché a confermare, una linea che puntava a sviluppare la tendenza spianata nel 2001 dall’insipienza del centrosinistra, vanamente protesa ad assorbire le velleità federaliste della Lega Nord per completare il disegno di delegittimazione della Costituzione del 1948, portando alle estreme conseguenze il modello di verticalizzazione del sistema di governo posto in discussione nella “bicamerale” presieduta da Massimo D’Alema.

Decrittando gli spots televisivi e le tavole rotonde addomesticate su una tematizzazione “costituzionalistica” che esplicitava l’ansia di edulcorazione del processo revisionistico nel quale, in nome dell’identità della ideologia giuridica, centrodestra e centrosinistra si sono scontrati a oltranza nella pretesa di imporre il “figurino” dell’uno al “figurino” dell’altro – il “premierato assoluto” contro il “premierato relativo” (!?) – il voto popolare ha espresso con istantaneo impulso di massa la reiezione di quello che è stato additato dal centrosinistra come un “pasticcio” del centrodestra, per non svelare che in tale “sgangherata riforma” c’erano gli ingredienti di una elaborazione tecnicistica, nella quale il “formalismo giuridico” dei costituzionalisti delle varie “scuole” venute in campo a sostegno delle due parti in disputa, separata dai partiti e dal popolo, aveva il fine preciso e convergente di occultare quello che in realtà è il reale obiettivo dell’ingegneria istituzionale: la demolizione della democrazia sociale che vive del coinvolgimento delle istituzioni nell’orbita dell’autonomia sociale delle masse.

Perciò l’occasione del voto del 25-26 giugno va colta per sollecitare i movimenti e le organizzazioni di ispirazione popolare a porre a fondamento delle lotte contro le forme attuali del capitalismo la costituzione del 1948, nella consapevolezza che ogni strategia di rivoluzione democratica comporta intrinsecamente una strategia di rivoluzione politico-istituzionale, che per tanto non implica nessuna “delega” né alla cultura “specialistica” dei giuristi (democratici o non), né ai ristretti gruppi delle segreterie di partito che, in modo non palese, operano scelte istituzionale di comodo, avvalendosi del prodotto delle culture giuridiche di origine “borghese”: dando scorrettamente l’idea che il marxismo non abbia una sua teoria del diritto e dello stato, che ogni concezione del diritto e dello stato sia di matrice non marxista e tradizionalmente borghese, e che quindi sia inevitabile la separatezza tra questione sociale e questione dello stato.

Ciò tanto più va sottolineato, in quanto vi sono differenze rilevanti da cogliere nei tre più significativi passaggi di voto referendario, segnati da largo intervento di massa: quello del 1974, su rigetto dell’abrogazione della legge sul divorzio; quello del 1993, sulla manipolazione in senso maggioritario della legge sulla proporzionale; quello del recente giugno, sull’alternativa tra conferma o reiezione della legge di revisione della “seconda parte” della costituzione. Infatti, premesso che il voto referendario viene impropriamente definito come espressione di “democrazia diretta” – mentre il marxismo considera democrazia diretta le forme del potere di massa volte ad incidere sui versanti sociale e politico del sistema di potere capitale/stato – si rende necessario chiarire che anche il voto referendario come il voto elettorale è la risultante di una dialettica sociale che ha modo di inserirsi negli assetti legislativi (ordinari o costituzionale) senza “formali mediazioni”, poiché il voto, nella scelta di volta in volta di un “sì” o di un “no”, è la risultante della forza egemonica che viene portata a tensione nel contrasto tra i “comitati promotori” dei quesiti referendari e i gruppi di potere che hanno condotto in porto le leggi ordinarie o costituzionali oggetto di abrogazione o di conferma.

Sinteticamente, nel caso del divorzio, i partiti di massa, con alla testa il PCI, hanno respinto il tentativo della destra clericale di prendersi una rivincita immediata contro le spinte alla socializzazione e alla democratizzazione del potere che si andavano imponendo negli anni 1967-1975, e il popolo respingendo l’abrogazione della legge che riformava la famiglia ha testimoniato di condividere il tipo di processo in atto, respingendo la contrapposizione tra diritti civili e diritti sociali.

Nel caso del passaggio dal metodo proporzionale al metodo maggioritario il popolo ha subìto l’influenza che nel 1993, in contraddizione con lo spirito prevalente negli anni 1967-75, ha espresso la convergenza tra i gruppi di potere della borghesia schieratisi nei “comitati di promotori” del referendum, d’intesa con i gruppi dirigenti del PDS e del PPI in stridente contrasto con la storia degli anni 1944-48 e di tutto il periodo che va sino al 1992, ponendo le basi della “entrata in campo” di Berlusconi.

Nel caso del referendum sulla revisione della seconda parte della costituzione, si è verificata una partecipazione spontanea quanto imprevista di cittadini lasciati alla quasi esclusiva loro sensibilità in favore del tipo di democrazia nata con i caratteri della fase costituente, rivelando una insospettata capacità di autonomia dal “tecnicismo costituzionalistico”, usato contro le culture sociali su cui è fondata l’intera costituzione per coprire il senso dell’operazione in corso sì da legittimare ora il blocco delle spinte eversive del centrodestra, indotte dall’insipienza del centrosinistra, specialmente con la “bicamerale D’Alema”.

Sta ora alle forze più genuinamente democratiche di assumere come propria una battaglia culturale e politica di “rilancio” della costituzione, che non può farsi quindi inserendosi acriticamente nella scelta di uno dei “figurini” istituzionali assunti “in prestito” da visioni estranee alla storia del movimento operaio, ma sottolineando quali sono le precise irrinunciabili implicazioni, sul nesso tra la forma di governo “parlamentare” e le autonomie sociali e politiche, della lotta per la “forma di stato” imperniata sulla trasformazione dei rapporti sociali: assumendo quindi come punti di non ritorno, da un lato la legge elettorale proporzionale “pura” senza “abbattimenti alla base” come in Germania, e dall’altro lato il ripudio del federalismo quale forma di neo-accentramento funzionale al capitalismo nazionale e internazionale che esalta l’accorpamento delle classi dirigenti dello “stato federale” e degli stati (o regioni) “membri”, nella collusione istituzionalizzata per il comando dall’alto degli interessi che qualificano i rapporti di produzione e una politica ridistributiva dominata, in duplice combinata forma, dal centro e dalle regioni “satelliti”, nelle mani di “governatori” istituiti per meglio contenere le spinte di massa sul territorio. 

LA COSTITUZIONE E’ SALVA! PER QUANTO?ultima modifica: 2011-04-02T01:07:00+02:00da iskra2010
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